Sur Leibniz Les principes et la liberté

Corsi Vincennes - St Denis
Cours du 27/01/1987
Ci troviamo, a questo punto, di fronte a tre questioni.

Come abbiamo visto l’ultima volta, la prima questione riguarda l’estrema importanza della nozione di singolarità o punto singolare. Ritengo che tale nozione sia di origine matematica e che, più precisamante, sia stata introdotta con la teoria delle funzioni. Gli storici della matematica ritengono, a giusto titolo, che questa teoria sia la prima grande formulazione da cui deriva quella che consideriamo la matematica moderna: la teoria delle funzioni analitiche. Ora, alla base di questa teoria delle funzioni c’è Leibniz: senza dubbio, tutta la sua importanza nel capo della matematica sta proprio nell’aver elaborato tale teoria, a cui non ci sarà quasi niente da cambiare, ma solo da sviluppare. Leibniz compie dunque un gesto matematico fondamentale, che orienta la matematica verso una teoria delle funzioni.
Ora, i punti singolari o singolarità sono lo strumento essenziale di questa teoria; Leibniz, però, non si accontenta di essere il primo grande matematico ad aver sviluppato una teoria delle funzioni (non sarebbe corretto dire che l’ha inventata, perché è nel XVIII secolo che si delineano i rudimenti di una vera e propria teoria delle funzioni): in Leibniz il concetto di singolarità tende per così dire a disperdersi, per diventare un concetto di carattere filosofico-matematico. Ma in che senso? Nel senso in cui, approssimativamente, possiamo dire (come abbiamo già visto) che ci sono vari tipi di singolarità. Per noi si tratterà allora di classificare le singolarità, nel senso leibniziano del termine.
In un primo senso, che cos’è una singolarità per Leibniz? Direi, in via molto approssimativa, che una singolarità è un’inflessione o, se preferite, un punto d’inflessione. Ora, il mondo è la serie infinita delle inflessioni, la serie infinita delle inflessioni possibili. La mia prima domanda-conclusione sarà dunque la seguente: che cos’è una singolarità, o che cos’è un punto singolare, una volta stabilito che, approssimativamente, una singolarità è un’inflessione, o, piuttosto, un punto in cui succede qualcosa in una curva? La nostra idea iniziale di una superficie a curvatura variabile, che ci è sembrata essere il tema fondamentale di Leibniz, è dunque inseparabile da una tecnica e da una filosofia delle singolarità e dei punti singolari. Non c’è bisogno di insistere, credo, sulla novità di una simile nozione. Certamente la logica conosceva già i concetti di universale, generale, particolare e singolare. Ma l’idea di singolarità, nel senso di punto singolare o di ciò che succede a una linea, è qualcosa di assolutamente nuovo e che ha un’origine propriamente matematica. Partendo da qui, possiamo allora definire filosoficamente un evento come un insieme di singolarità. Diremmo allora, più precisamente, che questa nozione non è di origine solamente matematica, ma anche fisica: un punto critico in fisica (un punto di evaporazione, di cristallizzazione, etc.) si presenta sempre come una singolarità. Tutto ciò (l’avvento di questa nozione matematico-fisico-filosofica di punto singolare) contiene già, capirete, tutto un insieme di problemi. Un omaggio a Leibniz!
Eccoci, quindi, di fronte a un primo gruppo di problemi; ma, come avrete già intuito, si tratta di un argomento che va ulteriormente sviluppato, fatto oggetto di ulteriore ricerca. Seconda questione, o secondo presentimento che abbiamo: tra due singolarità si può dare un rapporto del tutto particolare e una logica dell’avvenimento richiede che questo tipo di rapporto sia specificato. Che cos’è un rapporto e di che tipo sono i rapporti tra singolarità? L’ultima volta ho avanzato un’ipotesi partendo dall’idea seguente: se prendete un insieme di possibili, questi non sono necessariamente compossibili; dunque la relazione di compossibilità o di incompossibilità sarà il particolare tipo di relazione tra singolarità. “Adamo non peccatore” è incompatibile con il mondo in cui Adamo ha peccato. Ancora una volta – ed è questo che mi interessa, capite? – “Adamo non peccatore” è in contraddizione con “Adamo peccatore”, ma non è in contraddizione con il mondo in cui Adamo ha peccato. Semplicemente, tra il mondo in cui Adamo ha peccato e il mondo in cui Adamo non pecca, si dà incompossibilità. Come vedete, la situazione di Dio quando crea il mondo è assai bizzarra. Questa è una delle idee più celebri di Leibniz: Dio, quando crea il mondo, si trova a dover scegliere tra un’infinità di mondi possibili. Egli sceglie tra un’infinità di mondi ugualmente possibili, che non sono tuttavia compossibili tra loro. Nell’intelletto divino ci sono un’infinità di mondi possibili e Dio, tra questi mondi possibili che non sono compossibili, ne sceglierà uno. Quale? Fortunatamente non dobbiamo ancora occuparci di questo problema, ma la risposta di Leibniz è facile da indovinare: Dio sceglierà il migliore, il migliore dei mondi possibili. Egli non può sceglierli tutti in un una volta, essendo questi incompossibili. Sceglierà quindi il migliore dei mondi possibili – idea, questa, assai curiosa. Ma che vuol dire “il migliore”? Sarà necessario ricorrere a una specie di calcolo! Quale è il migliore dei mondi possibili e come lo si sceglie? Sembra che Leibniz finisca per inscriversi in quella lunga tradizione di filosofi per i quali l’attività superiore è il gioco. Ma, quando si dice che per molti filosofi l’attività superiore o divina è il gioco, non si dice granché, perché bisogna sapere di che gioco si tratta: a seconda della natura del gioco, tutto cambia. Come è noto, già Eraclito chiamava in causa il gioco di un bambino-giocatore, ma tutto dipende da ciò a cui il bambino-giocatore gioca. Il Dio di Leibniz gioca allo stesso gioco del bambino di Eraclito? Si tratta dello stesso gioco di cui parla Nietzsche? Oppure sarà lo stesso gioco di Mallarmé? Leibniz ci porterà a elaborare una teoria dei giochi, di cui lui stesso era un appassionato.
Le grandi teorie dei giochi fanno la loro comparsa nel XVII secolo e Leibniz stesso vi ha contribuito. Un’osservazione erudita: Leibniz conosceva il gioco del “go” – questo è molto interessante! [risate]. In un breve testo assai strabiliante, facendo un parallelo tra il “go” e gli scacchi, egli osserva molto giustamente che, alla fin fine, ci sono solo due tipi di giochi: la grande differenza tra il “go” (in realtà non lo chiama ”go”, ma “gioco cinese”) e gli scacchi consiste nel fatto che questi ultimi fanno parte di quei giochi in cui si tratta di prendere: si prendono dei pezzi. Vedete bene di che tipo di classificazione si tratta. Non si prende allo stesso modo negli scacchi e a dama, ci sono vari tipi di presa, ma si tratta pur sempre di giochi di “cattura”. Nel “go”, invece, si tratta di isolare, di neutralizzare, di circondare, non di prendere, di mettere fuori uso. Ecco l’osservazione erudita: nelle edizioni dei testi di Leibniz del XIX secolo, il gioco del “go” era così poco conosciuto che, all’inizio del XX secolo, Couturat (grande specialista di matematica e di Leibniz al tempo stesso), commentando in una nota questa allusione al gioco cinese, dice: “stando a quanto ci dice uno specialista della Cina…”. Ciò è assai curioso perché, come si capisce dalla nota di Couturat, il “go” era del tutto sconosciuto in quegli anni. La sua importanza in Francia è piuttosto recente. Ma mi sto perdendo in divagazioni. Tutto questo era per dirvi… per dirvi che cosa ? Ah sì, per dirvi con quale calcolo, con quale gioco, Dio sceglie un mondo determinabile come “il migliore”. Bene, mettiamo ora da parte tutto questo, visto che la risposta non è affatto difficile e noi, per il momento, siamo immersi nel difficile.
Ciò che ci interessa ora (e questa è la mia seconda domanda) è: qual è il tipo di relazione che permette di definire la compossibilità e l’incompossibilità? L’ultima volta mi ero trovato costretto a dire che i testi di Leibniz erano, a questo riguardo, un po’ reticenti, ma che avevamo il diritto di avanzare un’ipotesi. La nostra ipotesi era la seguente: si può dire che tra due singolarità si dà compossibilità, quando il prolungamento dell’una fino alle vicinanze dell’altra dà luogo a una serie convergente; al contrario, si dà incompossibilità quando le serie divergono. Sarebbero quindi la convergenza e la divergenza delle serie a permettermi di definire la relazione di possibilità e di incompossibilità. La compossibilità e l’incompossibilità sarebbero conseguenze dirette della teoria delle singolarità. Questa era il secondo problema che potevamo tirar fuori dal nostro ultimo incontro.
Terza e ultima questione: che cos’è l’individualità o l’individuazione? Perché, in Leibniz, questo è un problema fondamentale? L’abbiamo già visto: se è vero che ogni sostanza è individuale, se è vero che la sostanza è la nozione individuale designata attraverso un nome proprio (voi, io, Cesare, Adamo, etc.), allora la domanda “in che cosa consiste l’individuazione, che cosa individua la sostanza se ogni sostanza è individuale?” diventa fondamentale. La mia risposta o la mia ipotesi era la seguente: si può dire che l’individuo o sostanza individuale sia un condensato di singolarità compossibili, vale a dire convergenti. Questa sarebbe, in ultima analisi, una definizione di individuo. Se questo si può ammettere, direi, allora, che gli individui sono delle singolarità di secondo genere. Ma che cosa vorrebbe dire “un condensato di singolarità”? L’individuo Adamo, ad esempio, lo definisco, riprendendo le lettere ad Arnauld, nel modo seguente: “primo uomo” (prima singolarità), “in un giardino” (seconda singolarità), “avere una donna nata dalla propria costola” (terza singolarità), “aver ceduto a una tentazione” (quarta singolarità). Figuratevi come tante xxxxx… [una o due parole impercettibili, forse la parola “singolarità”] che pre-esistono al soggetto. Ma in che senso gli pre-esistono? Disponiamo, a questo proposito, di un’espressione perfetta: diremmo che le singolarità sono pre-individuali. Di conseguenza, non c’è alcun circolo vizioso (cosa che sarebbe assai spiacevole) nel definire l’individuo come un condensato di singolarità, se le singolarità sono pre-individuali. Ma che cosa significa “condensato”? Tutti i testi di Leibniz ci dicono e ci ricordano che i punti hanno la possibilità di coincidere – è anche per questo che i punti non sono parti costitutive dell’estensione. Se, ad esempio, ho un numero infinito di angoli, posso far coincidere i loro vertici. Direi che “condensato di singolarità” significa che i punti coincidono. L’individuo, come dice Leibniz, è un punto, un punto metafisico. Il punto metafisico è il punto di coincidenza di un insieme di punti singolari. Di qui la sua importanza.
Questo è quanto abbiamo mostrato sin dall’inizio, ma ci tengo a giustificarlo continuamente. Ed è anche ciò che Leibniz stesso ci ripete in continuazione: non ci sono che sostanze individuali; e ancora: non c’è nulla di reale – fate ben attenzione: nulla di reale – oltre alle sostanze individuali. Ma, come abbiamo visto, ciò non impedisce affatto di partire dal mondo: anzi, bisognava proprio partire dal mondo, vale a dire dall’inflessione - ed è quello che noi stessi abbiamo fatto. Bisognava partire dalla serie infinita delle inflessioni. È solo in un secondo momento che ci si accorge che le inflessioni, o il mondo stesso, esistono solo all’interno delle sostanze individuali che le esprimono. Ma ciò non toglie che le sostanze individuali risultino dal mondo. Come vi dicevo, è necessario tenere ben salde queste due proposizioni contemporaneamente: le sostanze individuali sono per il mondo, e il mondo è nelle sostanze individuali. O, come dice Leibniz nelle lettere ad Arnauld, Dio non ha creato Adamo peccatore, ma ha creato il mondo in cui Adamo ha peccato, una volta stabilito che il mondo in cui Adamo ha peccato esiste solo all’interno delle nozioni individuali che lo esprimono (quella di Adamo peccatore e quella di tutti noi che viviamo sotto il peccato originale). Questo è per me il testo chiave: senza di esso tutto quello che abbiamo detto, l’ordine che abbiamo seguito nel primo trimestre, andando dal mondo alla sostanza individuale, non sarebbe valido.
Bene, vedete quindi che il terzo punto riguarda tutta quella sfera di questioni legate al problema dell’individuazione. Credo che, anche in questo campo, Leibniz sia stato un pioniere. Se ora dovessi riassumere i tre punti, direi che, tra tutte le cose fondamentali che Leibniz ha introdotto in filosofia, c’è, innanzitutto, l’irruzione della nozione matematico-fisico-filosofica di singolarità, a cui corrisponde la mia domanda: “ma, in fin dei conti, che cos’è una singolarità?” (dal momento che non si arriverà mai a una fine, con la singolarità come elemento costitutivo degli eventi). Una logica degli eventi, una matematica degli eventi, è una teoria delle singolarità. Ora, in matematica ciò coincide con la teoria delle funzioni, ma ciò che noi stiamo cercando non è solo una teoria delle funzioni, ma una logica dell’evento. Secondo punto: i tipi di relazione tra singolarità (compossibilità, incompossibilità, serie convergenti, serie divergenti) e le conseguenze di tutto ciò per l’intelletto di Dio, per la creazione del mondo e per il gioco di Dio (abbiamo visto che Dio crea, vale a dire sceglie il migliore, attraverso una specie di calcolo o di gioco). Terzo punto: che cos’è l’individualità, se si parte dall’idea che essa condensa un certo numero di singolarità, o meglio un’infinità di singolarità, le quali sono, di conseguenza, necessariamente pre-individuali?
Si tratta senza dubbio di tre questioni difficili. Per il momento, tuttavia, vorrei trarne solo delle conseguenze “riposanti”. Vedete bene la situazione assai curiosa: c’è il compossibile e l’incompossibile; nell’intelletto di Dio si agita un’infinità di mondi possibili. Qui Leibniz va fino in fondo. Chiedo scusa a coloro che erano qui due anni fa: di queste cosa ho già parlato in un'altra occasione, a proposito di un problema concernente il vero e il falso. Ora bisogna necessariamente che io le riprenda, ma lo farò abbastanza rapidamente. Parlo per quelli che non c’erano.
Tre sono i testi fondamentali che dovete considerare. Il primo, assai celebre, è dello stesso Leibniz: si tratta della Teodicea, III parte, paragrafo 413 e sgg. È un testo, questo, eminentemente barocco. Che cosa intendiamo per narrazione barocca? Gérard Genette e gli altri critici che si sono occupati della questione sono tutti più o meno d’accordo nel dire che due sono gli aspetti che, almeno a prima vista e immediatamente, caratterizzano le narrazioni barocche: da una parte, l’inscatolamento dei racconti gli uni dentro agli altri; dall’altra, la variazione del rapporto narratore/narrazione. Ma, a ben vedere, i due aspetti finiscono per fare tutt’uno: a ogni racconto inscatolato in un altro corrisponde, in effetti, un nuovo tipo di rapporto narratore/narrazione. Se ora considerate la storia assai curiosa – nonché bella, come tutto, del resto, nella Teodicea - che Leibniz ci racconta a partire dal paragrafo 413, vedrete che si tratta di un tipico esempio di narrazione barocca: partendo da un dialogo tra un filosofo del Rinascimento di nome Valla…

(fine della banda sonora)

... si fa riferimento a un personaggio romano, Sesto, l’ultimo re di Roma, noto per la sua malvagità e per aver violentato Lucrezia. Alcuni sostengono che sia stato suo padre ad aver violentato Lucrezia ma, nella tradizione nota a Leibniz, è Sesto che l’ha violentata. E il problema è: la colpa è forse di Dio? Dio è responsabile del male? All’interno di questo primo racconto del dialogo tra Valla e Antonio, se ne innesta poi un altro, in cui Sesto va a consultare Apollo per chiedergli: “Ma alla fine, Apollo, che cosa mi succederà?”. E, a questo punto, si giustappone un terzo racconto: Sesto, insoddisfatto di quello che gli ha detto Apollo, decide di recarsi da Giove in persona per avere una risposta di prima mano. Ennesima variazione nella narrazione: durante l’incontro di Sesto con Giove, compare un nuovo personaggio, Teodoro, il grande sacerdote amato da Giove, e con lui ha inizio un nuovo racconto. Teodoro, che ha assistito al dialogo tra Sesto e Giove, dice a quest’ultimo: “Ma, alla fine, non gli hai dato una risposta”. E Giove: “Vai a trovare mia figlia Pallade”. Si tratta dell’ultimo racconto che si intreccia dentro agli altri: Teodoro si reca da Pallade, la figlia di Giove - vedete che inscatolamento considerevole! Ma, una volta giunto là, Teodoro si addormenta! [Gilles scoppia a ridere] Questo è tipicamente barocco, il romanzo barocco è esattamente così. Non posso dunque credere che Leibniz… egli sa perfettamente quello che sta facendo. In questo finale completamente folle della Teodicea, Leibniz sa perfettamente ciò che sta facendo. Si tratta di una grande imitazione barocca e, ripeto, lui lo sa.
Dunque, Teodoro si addormenta e sogna. Sogna di parlare con Pallade ed ecco che questa gli dice: “Vieni e seguimi!”. Non è finita: ella lo conduce presso una splendida piramide trasparente: il palazzo dei destini (siamo nel sogno di Teodoro). Ha qui inizio un tema architetturale che dovrebbe farci felici. “Questo è il palazzo dei destini, di cui io sono la guardiana”, dice Pallade, che aggiunge : “Giove, talvolta, torna a visitare questi luoghi, per il piacere di ricapitolare le cose e di riconfermare la propria scelta”. Dio viene a visitare questa struttura, questa struttura trasparente: un’immensa piramide che ha un vertice, ma che non ha una fine. Improvvisamente, si sta dicendo una cosa molto importante, capite? Si sta dicendo che, tra gli infiniti mondi possibili, ce n’è sicuramente uno che è il migliore, ma non c’è il peggiore: verso il basso si va all’infinito, ma non verso l’alto. C’è un massimo, ma non c’è un minimo. Tutto ciò ci interessa, poiché va inteso matematicamente. In seguito, quando considereremo tutto ciò che è punto singolare, vedremo che a un certo punto sorgerà l’idea che ci siamo dei massimi e dei minimi. Credo che in Leibniz i massimi e i minimi non siano dello stesso tipo. Al livello dei mondi possibili, c’è un mondo che è il migliore, ma non c’è il peggiore. Abbiamo, quindi, una piramide senza fine, ma dotata di un vertice che si trova molto in alto… capirete che ciò ci pone un nuovo problema. Il testo è splendido, spero lo leggerete, ma pone tuttavia un problema di “organizzazione”.
Proviamo a fare un disegno. Molto in alto c’è un appartamento (“appartamento” è la parola impiegata da Leibniz). Poi, come ricorderete, c’è il piano inferiore, quello ancora inferiore e così via. Tutto ciò lo ritroveremo in un testo mirabile. Se ho inteso bene, c’è un appartamento che termina a punta e che occupa tutta la parte superiore della piramide. In questo appartamento vive un Sesto. Bene. Sotto, ci dice Leibniz, ci sono altri appartamenti. Ma qui la cosa si complica. Considero tutti questi appartamenti, ma non è mica facile: come sono organizzati? Secondo me, non è possibile che ce ne siano alcuni che hanno il vertice rivolto verso il basso. In altre parole: come si riempie una piramide? Con quali figure ? Direi ancora: di che forma sono gli appartamenti? Si tratta di un problema appassionante, ben noto ai matematici e che, in modo più semplice, si può formulare così: data una superficie, come riempirla in modo che non ci siano spazi vuoti? O, ancora più semplicemente, come lastricare una superficie? I problemi di pavimentazione, oltre ad essere problemi di architettura, sono anche problemi di matematica. Ad esempio, si può pavimentare un cerchio con dei cerchi, oppure resteranno degli spazi vuoti? Data una superficie, con che cosa la si può lastricare? Il mestiere del pavimentatore sembra un mestiere da nulla ed è invece uno dei più bei mestieri del mondo! È un’attività divina, quella della pavimentazione! Ne è prova il fatto che Leibniz, in un celebre testo intitolato L’origine radicale delle cose (Leibniz aveva il genio dei titoli: non c’è niente di più bello che scrivere un testo intitolato L’origine radicale delle cose, soprattutto quando si tratta di uno scritto di quindici pagine!), ebbene, in questo testo, Leibniz evoca esplicitamente, a proposito della creazione del mondo da parte di Dio, l’attività del pavimentazione. Egli suppone cioè che lo spazio sia assimilabile a una superficie data (cosa a cui, a ben vedere, non credeva affatto, ma qui poco importa) e afferma: Dio sceglie il mondo che riempie meglio e al massimo questo spazio. In altri termini, Dio sceglie quel mondo che meglio pavimenta lo spazio della creazione. In che modo posso quindi lastricare la mia piramide di appartamenti in modo da non lasciare spazi vuoti? Questo è ciò che ci interessa. Bisogna supporre, se si tratta di piccole piramidi, che nessuna abbia la punta rivolta verso il basso, altrimenti non và. Vedete, è per aprirvi dei problemi immensi che vi dico tutto questo. Ma allora, negli appartamenti più in basso…
Ogni appartamento, ci dice Leibniz da qualche parte (non ricordo più dove, ma credetemi), ogni appartamento è un mondo. Ah, ho ritrovato il passo, hé hé: “Dopo di che la Dea guidò Teodoro in uno degli appartamenti. Quando vi furono giunti, non era più un appartamento, ma un mondo”. Ho l’impressione che si tratti qui dell’entrata nel Barocco. Entrate in un appartamento barocco e, nel momento stesso in cui vi entrate, non è più un appartamento, ma un mondo. Avete un primo appartamento in cui c’è un Sesto, e poi, più in basso, ne avete un altro. Non ci sono i piani più bassi, ma ci sono piani sempre più bassi. E poi c’è un piano che è il più alto. Nel piano in alto, dunque, avete un Sesto e, nei piani successivi, avete altri Sesti. Ma perché anche questi sono dei “Sesti”? Questo sarà il nostro prossimo problema.
Quando le cose si complicano (tutto mi interessa in un testo così bello), Leibniz dice: ciascun Sesto, in ogni appartamento, ha un numero sulla fronte (3000, 10 000, etc.); siccome la piramide di appartamenti è infinita verso il basso, avrete sicuramente un Sesto che ha il numero 1 000 000. Quello dell’appartamento più in alto ha il numero 1. Perché ha un numero? Il fatto è che – ricorderete quello che vi ho detto – nel barocco l’appartamento in alto era un cabinet di lettura. In ogni appartamento c’è un grande volume. Teodoro non può non domandarsi che cosa ciò voglia dire: “Perché c’è questo libro?”. “È la storia di questo mondo, - gli risponde la dea Pallade - è la storia del mondo che ora stiamo visitando. Questo è il libro dei destini. Prima hai visto un numero sulla fronte di Sesto, cerca ora ciò a cui corrisponde”. Teodoro cerca e trova la storia di Sesto: tutta la sua storia. Tuttavia, io vedevo già Sesto nel suo appartamento trasparente, ah sì! Lo vedevo mentre mimava una sequenza, ad esempio mentre violentava Lucrezia, o - cosa assai più convenevole mentre – mentre si faceva incoronare re di Roma. Tutto ciò, io lo vedevo come a teatro. Ma non vedevo tutto: l’insieme del mondo a cui appartiene questo Sesto, cioè l’insieme del mondo con cui questo Sesto (il Sesto che violenta Lucrezia e che si fa incoronare re di Roma) è compossibile, non lo vedo affatto, ma lo leggo nel libro. Vedete anche qui in opera la combinazione leggere-vedere, propria del barocco. Ciò che la volta scorsa abbiamo definito l’”emblema”, dicendo che il barocco è emblematico, qui lo ritroviamo perfettamente. Ma sto divagando.
Questo per quanto riguarda il Sesto che si trova in alto. Bene. Ma, in basso, vedo un Sesto che va a Roma e che, però, rinuncia a farsi incoronare. Come dice Leibniz, si compra un orticello e diventa un uomo ricco e rispettato. È un altro Sesto, ha un altro numero sulla fronte. Diremmo : questo Sesto numero due è incompossibile con l’appartamento del piano superiore, con il mondo numero uno. Vedo poi un terzo Sesto, che rinuncia ad andare a Roma e si reca altrove, in Tracia ad esempio; qui si fa incoronare re, non violenta Lucrezia, e così via all’infinito. Come vedete, tutti questi mondi sono possibili, ma incompossibili tra loro. Che cosa significa questo? Significa che c’è divergenza, che c’è un punto di divergenza. Ma perché diciamo che sono tutti dei Sesti? Ritorneremo in seguito sulla questione, che è molto importante, ma possiamo sin da ora supporre che sono tutti dei Sesti perché hanno un piccolo numero di singolarità in comune: sono tutti figli di Tarquinio e successori del re di Roma. Ma, se in un caso Sesto succede effettivamente a suo padre, in un altro rinuncia alla successione e lascia Roma; in un altro ancora rinuncia alla successione, pur restando a Roma. Vedete bene che le divergenze ci fanno passare da un mondo all’altro: necessariamente, le divergenze che definiscono l’incompossibilità non passano per lo stesso mondo. Questo è molto importante: ho una rete di divergenze che hanno inizio da stessa singolarità, o, più precisamente, che hanno inizio nel punto d’incontro di una medesima singolarità con un’altra. Avete così un quadro molto gioioso dei mondi incompossibili. Un mondo è definito da un insieme di compossibilità, da un insieme di singolarità compossibili, e Dio sceglie: sceglie il migliore dei mondi possibili.
Ora, molto rapidamente, vorrei fare riferimento a due testi fondamentali, due testi letterari tipicamente leibniziani. Il primo non crea alcun problema: l’autore è un grande conoscitore di Leibniz e non ha quasi bisogno di essere citato. Sto parlando di Borges e del racconto intitolato Il giardino dei sentieri che si biforcano. L’incompossibilità diventa in Borges la biforcazione: i sentieri che si biforcano. Questo racconto si trova nella racconta Finzioni. Ve ne leggo un passo in cui si parla di un romanzo scritto da un misterioso autore cinese: “In tutte le opere narrative, ogni volta che s’è di fronte a diverse alternative, ci si decide per una e si eliminano le altre (notate che si tratta esattamente della stessa situazione in cui si trova il Dio di Leibniz: tra i mondi incompossibili, egli ne sceglie uno e scarta gli altri); in quella del quasi inestricabile Ts’ui Pên, ci si decide – simultaneamente – per tutte (immaginate un Dio leibniziano perverso che farà passare all’esistenza tutti i mondi incompossibili: che cosa direbbe Leibniz? Direbbe che è impossibile! Ma perché è impossibile? Perché, in quel momento, Dio rinuncerebbe al suo principio preferito, al principio del meglio: rinuncerebbe a scegliere il meglio. Immaginate un Dio che non ha la preoccupazione del migliore, cosa che è evidentemente impossibile, ma cercate di immaginarlo. Cadremmo allora da Leibniz in Borges). Si creano, così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano. Di qui le contraddizioni del romanzo. Fang – diciamo – ha un segreto (Fang è un personaggio come Sesto); uno sconosciuto batte alla sua porta; Fang decide di ucciderlo. Naturalmente, vi sono vari scioglimenti possibili: Fang può uccidere l’intruso, l’intruso può uccidere Fang, entrambi possono salvarsi, entrambi possono restare uccisi, eccetera. Nell’opera di Ts’ui Pên, questi scioglimenti vi sono tutti; e ognuno è il punto di partenza di altre biforcazioni”. Ora, a me sembra che nell’intelletto divino ci sia esattamente la stessa situazione: in esso tutti i mondi possibili si sviluppano. Solo che poi c’è poi uno sbarramento: Dio fa passare all’esistenza solo uno di questi mondi. Nel suo intelletto, però, ci sono tutte le biforcazioni. Questa è un’immagine dell’intelletto divino che nessuno aveva mai concepito prima. Con ciò volevo solo mostrarvi come questo racconto di Borges sia una semplice applicazione, un puro esercizio di stile, tratto direttamente dalla Teodicea. Ma ancora più interessante è il secondo testo che vi segnalavo: un romanzo ancor più leibniziano, un romanzo letteralmente leibniziano. Ne è autore qualcuno che non ci si aspetterebbe e che si è dimostrato essere un grande filosofo: sto parlando di Maurice Leblanc, un grande romanziere popolare nel XIX secolo e ben noto per aver ideato il personaggio dell’Arsenio Lupin. Ma, oltre all’Arsenio Lupin, egli ha scritto dei romanzi mirabili, in particolare uno che è stato ristampato in edizione tascabile e che si intitola: La vie extravagante de Balthazar. Vedrete che romanzo tortuoso! Ve lo riassumo rapidamente. Il protagonista è Balthazar, un giovane professore di filosofia quotidiana. La filosofia quotidiana è una filosofia molto particolare e molto interessante, che consiste nel dire: nulla è straordinario, tutto è regolare e ordinario; tutto ciò che accade rientra nell’ordine. In altre parole, non ci sono singolarità. Questo è molto importante. Durante tutto il romanzo, Balthazar incorrerà in ogni sorta di incredibili sciagure, rincorso di volta in volta da una timida innamorata di nome Coloquinte. E questa gli chiede: “Ma signor Balthazar, che cosa dice la filosofia quotidiana di tutto quello che ci succede e che è completamente fuori dal comune?”. E Balthazar, rimproverandola, le dice: “Coloquinte, tu non capisci. Tutto ciò rientra perfettamente nell’ordine e presto lo scopriremo”. E così le singolarità si dissolvono.
Ricorderete tutti il mio problema: come si sviluppano le singolarità ? Prolungandosi su una serie di ordinari, fino ad avvicinarsi a un’altra singolarità. Ma che cosa la trascina? Gli ordinari dipendono dalle singolarità o sono piuttosto le singolarità che dipendono dagli ordinari?
Un passo, che vi ho citato l’ultima volta dai Nuovi Saggi e a cui tengo molto, ci farebbe pensare a una risposta complessa. Leibniz ci dice: ciò che è rimarchevole (intendete: la singolarità) deve essere composto di parti che non lo sono. In altre parole: una singolarità è composta di ordinari. Ma questo che cosa significa? Non è affatto complicato. Prendiamo ad esempio una figura come il quadrato, che ha quattro singolarità: i suoi quattro vertici, le sue quattro… non so cosa… i suoi quattro cosi in cui cambia la direzione: i suoi quattro punti singolari. Posso chiamarli A, B, C e D. Si può dire che ciascuna di queste singolarità è un doppio punto ordinario, dal momento che la singolarità B risulta dalla coincidenza di un ordinario che fa parte di AB e di un altro ordinario che fa parte di BC. Bene.
Dovrei dire che tutto è ordinario, anche la singolarità o, piuttosto, che tutto è singolare, compreso l’ordinario? Balthazar ha scelto a prima vista: tutto è ordinario, anche le singolarità. Tuttavia gli succedono delle cose assai buffe, perché, ecco, egli non sa chi è suo padre. A differenza dei personaggi dei romanzi moderni, per lui è del tutto indifferente sapere chi è suo padre. Tuttavia, a causa di un problema di eredità, deve scoprirlo. E Leblanc, l’immortale autore di questo bel libro, di questo grande romanzo, stabilisce tre singolarità che definiscono Balthazar. Ha delle impronte digitali (si tratta di una singolarità perché le sue impronte non assomigliano a quelle di nessun altro). Prima singolarità: le sue impronte digitali. Seconda singolarità: un tatuaggio sul petto composto di tre lettere: m, t, p; mtp. Infine, terza singolarità: una veggente che ha consultato e che gli ha detto: tuo padre è senza testa. Ecco dunque le tre singolarità di Balthazar: avere un padre senza testa, avere delle impronte digitali che sono le sue, e avere tatuate le lettere mtp. Sono come le tre singolarità di Adamo: essere il primo uomo, trovarsi in un giardino e avere una donna nata dalla propria costola. Possiamo partire da qui. Dopodichè gli si presenta tutta una serie di padri. Primo padre: il conte de Coucy Vendôme [?], che corrisponde abbastanza bene alle condizioni richieste, perché è morto sgozzato, sgozzato da un bandito, la testa tagliata di netto. Bathazar è suo figlio? Date le tre singolarità di partenza, è possibile prolungarle fino ad avvicinarle a quest’altra singolarità : essere il figlio del conte assassinato ? Sicuramente sì, in un certo mondo. In un mondo è così. Sembra funzionare. Ma, in seguito, quando Balthazar sta per impossessarsi dell’eredità del conte di Coucy, viene rapito da un bandito che gli dice…

(fine della banda sonora).