Sur Leibniz

Corsi Vincennes - St Denis
Cours du 06/05/1980

L’ultima volta, abbiamo concluso con questa domanda: che cos’è la compossibilità, e che cos’è l’incompossibilità? Cosa sono queste due relazioni? La relazione di compossibilità, la relazione d’incompossibilità. Come definirle?

Abbiamo constatato che ciò ci metteva di fronte ad ogni sorta di problemi e che ci lanciava verso l’esercizio, anche se sommario, dell’analisi infinitesimale. Oggi, vorrei fare un terzo grande capitolo che consisterebbe a dimostrare fino a che punto Leibniz organizza in modo nuovo, ed anche crea dei veri e propri principi. Creare dei principi, non è un bisogno corrente. Questo terzo grande capitolo di una introduzione ad una lettura possibile di Leibniz, lo chiamerò: “deduzione dei principi”. Che i principi siano oggetto di una deduzione particolare, di una deduzione filosofica, anche questo non è ovvio. C’è una tale ricchezza di principi in Leibniz, invoca continuamente dei principi dandogli, quando ne ha bisogno, dei nomi che prima non esistevano. Per orientarsi in questi principi, dobbiamo ritrovare il filo della deduzione leibniziana.

Il primo principio che Leibniz si da con una giustificazione rapida, è il principio d’identità. È il minimo, il minimo che si conceda. Che cos’è il principio d’identità? Ogni principio ha una ragione. A è A. Una cosa, è la cosa. Una cosa è cio che è. Sono andato già un pò avanti. Una cosa è cio che è, è meglio che A è A, perché? Perche ciò mostra quale sia la regione governata dal principio d’identità. Se il principio d’identità può esprimersi sotto la forma “una cosa è cio che è”, è perché l’identità consiste a manifestare l’identità propria tra la cosa e ciò che la cosa è. Se l’identità regola il rapporto della cosa e di ciò che la cosa è, ci dice che la cosa è identica alla cosa e che la cosa è identica a ciò che è, io posso dire, che cos’è la cosa? Ciò che la cosa è, tutti l’hanno sempre chiamata l’essenza della cosa. Direi che il principio d’identità è la regola delle essenze. La regola delle essenze, o se volete, del possibile. In effetti, l’impossibile è il contraddittorio. Il possibile, è l’identico. Cosicché, il principio d’identità è una ragione, una ratio, quale ratio? È la ratio delle essenze oppure, come dicevano i latini o secondo la terminologia del medio evo molto tempo prima: ratio essendi. Prendo questo esempio tipico perché credo che sia molto difficile fare filosofia senza avere una certa familiarità terminologica; non dovete mai pensare di poterne fare a meno, e non pensate che sia difficile da acquisire. È esattamente la stessa cosa delle scale per pianoforte. Se voi non conoscete abbastanza precisamente il rigore dei concetti, cioè il senso delle grandi nozioni, allora sarebbe troppo difficile. Si deve prendere ciò come esercizio. I filosofi, è normale che abbiamo le loro proprie scale, hanno il loro pianoforte mentale. C’è bisogno di cambiare l’aria delle categorie. La storia della filosofia non può essere fatta se non dai filosofi; ora, è vero, che essa è stata presa in mano dai professori di filosofia, e ciò non è un bene perché ne hanno fatto una materia d’esame e non una materia di studi, di scale.
Ogni volta che parlerò di un principio secondo Leibniz, gli darò due formulazioni. Una formulazione volgare e una formulazione erudita. È un fatto molto bello al livello dei principi, il rapporto necessario fra la pre-filosofia e la filosofia, questo rapporto di esteriorità per il quale la filosofia ha bisogno di una pre-filosofia.
Formulazione volgare del principio d’identita: la cosa è cio che la cosa è, identità della cosa e della sua essenza. Vedete che già la formulazione volgare, implica molte cose. Formulazione erudita del principio d’identità: ogni proposizione analitica è vera. Che cos’è una proposizione analitica? È una proposizione in cui, il predicato e il soggetto sono identici. Una proposizione analitica è vera: A è A, è vera. Andando nel dettaglio delle formule di Leibniz possiamo ampliare la formulazione erudita. Ogni proposizione analitica è vera secondo due casi: o per reciprocità o per inclusione.
Esempio di proposizione di reciprocità: il triangolo ha tre angoli. Avere tre angoli, è questo il triangolo. Secondo caso: inclusione: il triangolo ha tre lati. In effetti, figura chiusa avente tre angoli inviluppa, include, implica l’avere tre lati. Diremo che le proposizioni analitiche di reciprocità sono l’oggetto di intuizioni, e che le proposizioni analitiche d’inclusione sono l’oggetto di dimostrazioni.
Quindi, principio d’identità, regola delle essenze o del possibile, ratio essendi, a quale domanda risponde? A quale grido risponde il principio d’identità? Il grido patetico che costantemente appare in Leibniz corrispondente al principio d’identità è: perché qualcosa piuttosto che niente? È il grido della ratio essendi, della ragione d’essere. Se non ci fosse l’identità, un’identità concepita come identità della cosa e di ciò che la cosa è, a quel punto non ci sarebbe niente.

Secondo principio: principio di ragione sufficiente.
Questo ci rimanda al dominio che abbiamo classificato come il dominio delle esistenze. La ratio corrispondente al principio di ragione sufficiente, non è piu la ratio essendi, la ragione delle essenze o della ragione d’essere, è la ratio esistendi, la ragione d’esistere. La questione non è più: perché qualcosa piuttosto che niente poiché il principio d’identità ci ha assicurato che c’era qualcosa, cioè l’identico. Non è più: perché qualcosa piuttosto che niente, ma perché questo puttosto che quello? Quale ne sarebbe l’espressione volgare? Abbiamo visto che ogni cosa ha una ragione. Bisogna che ogni cosa abbia una ragione. Quale ne sarebbe l’espressione erudita? Vedete che in apparenza siamo del tutto fuori dal principio d’identità. Perché? Perché il principio d’identità riguarda l’identità della cosa e ciò che essa è, ma non dice se la cosa esiste. Il problema se la cosa esista oppure no, è del tutto diverso dal problema di ciò che essa sia. Posso in ogni momento determinare ciò che una cosa è indipendentemente dal problema di sapere se essa esista oppure no. Per esempio so che il licorno non esiste, ma posso dire che cosa esso sia. Quindi c’è proprio bisogno di un principio che ci faccia pensare l’esistente. Come può un principio apparentemente cosi vago come “tutto ha una ragione” farci pensare l’esistente? Sarà la formulazione erudita a spiegarcelo. Troviamo in Leibniz una formulazione erudita sotto forma del seguente enunciato: ogni predicazione (cioè l’attività del giudizio che attribuisce qualcosa ad un soggetto; quando io dico “il cielo è blu”, attribuisco blu a cielo e faccio una predicazione), ogni predicazione ha un fondamento nella natura delle cose. È la ratio existendi.

Cerchiamo di capire meglio come ogni predicazione abbia un fondamento nella natura delle cose. Ciò vuol dire: tutto quello che si dice di una cosa, l’insieme di ciò che si dice di una cosa, è la predicazione riguardante questa cosa, tutto ciò che si dice una cosa è compreso, contenuto, incluso nella nozione della cosa. Ecco il principio di ragione sufficiente. Come vedete, la formula che prima ci sembrava innocente, ogni predicazione ha un fondamento nella natura delle cose, presa alla lettera, diventa molto più strana: tutto ciò che si dice di una cosa deve essere compreso, contenuto, incluso nella nozione della cosa. Allora, tutto ciò che si dice di una cosa, che cos’è? prima di tutto è l’essenza. In effetti, l’essenza si dice della cosa. Soltanto che, su questo piano, non ci sarebbe nessuna differenza fra ragione sufficiente e identità. Ed è normale perché la ragione sufficiente riprende tuto il contenuto del principio d’identità, aggiungendoci qualcosa: ciò che si dice di una cosa non è soltanto l’essenza della cosa, è l’insieme delle affezioni, degli eventi che si rapportano o che appartengono alla cosa.
Quindi, non soltanto l’essenza sarà contenuta nella nozione della cosa, ma il più piccolo degli eventi, la più piccola delle affezioni riguardanti la cosa, cioè ciò che si attribuisce con verita alla cosa saranno contenuti nella nozione di essa.
L’abbiamo visto: attraversare il Rubicone, che lo si voglia o no, bisogna per forza che sia contenuto nella nozione di Cesare. Gli eventi, le affezioni del tipo amare, odiare, bisogna che siano contenute nella nozione del soggetto che prova queste affezioni. In altri termini, ogni nozione individuale – e l’esistente è precisamene l’oggetto, il correlato di una nozione individuale – ogni nozione individuale esprime il mondo. È questo il principio di ragione sufficiente. A tutto c’è una ragione significa che tutto quello che accade ad una cosa deve essere contenuto per tutta l’eternità nella nozione individuale della cosa .
La formulazione definitiva del principio di ragione sufficiente è molto semplice: ogni proposizione vera è analitica, ogni proposizione vera – per esempio ogni proposizione che consiste nell’attribuire a qualche cosa un evento che si è effettivamente prodotto e che concerne questo qualcosa -, ebbene, se è vero, bisogna per forza che l’evento sia compreso nella nozione della cosa.
In che ambito ci troviamo? Nell’ambito dell’analisi infinita, mentre al contrario, al livello del principio d’identità, ci troveremmo di fronte soltanto a delle analisi finite. Ci sarà un rapporto analitico infinito fra l’evento e la nozione individuale che comprende l’evento. In breve, il principio di ragione sufficiente è il reciproco del principio d’identità – ma cosa è accaduto nella reciproca? La reciproca ha conquistato un ambito radicalmente nuovo, la reciproca ha conquistato il dominio delle esistenze. Era sufficiente fare la reciproca, di capovolgere la formula dell’identità per ottenere quella della ragione sufficiente; bastava reciprocare la formula dell’identità che concerne le essenze per disporre di un nuovo principio, principio di ragione sufficiente riguardante le esistenze. Mi direte voi che non era affatto complicato. Era molto complicato invece, perché? La reciproca non era possibile, questa azione di reciprocità non era possibile se non si fosse portata l’analisi all’infinito. La nozione, il concetto di analisi infinita è una nozione assolutamente originale. Consisterà nel dire che essa può esistere soltanto nell’intelletto di Dio, che è infinito? Certo che no. Ciò implica tutta una tecnica, la tecnica dell’analisi differenziale o del calcolo infinitesimale.

Terzo principio: è vero che la reciproca della reciproca darebbe il primo principio? Non è una cosa certa. Dipende, ci sono talmente tanti punti di vista. Cerchiamo di variare le formulazioni del principio di ragione sufficiente. Dicevamo, per la ragione sufficiente, che tutto ciò che accade ad una cosa deve essere compreso, incluso nella nozione della cosa, e questo implica l’analisi infinita. Tanto vale dire: per tutto ciò che accade o per ogni cosa c’è un concetto. Avevo insitito su questo punto, ciò che è importante dire è che Leibniz non vuole affatto riprendere un celebre principio. Tutto il contrario, non vuole affatto questo – tale principio sarebbe il principio di causalità. Quando Leibniz dice che a tutto c’è una ragione, ciò non vuol dire per niente che tutto abbia una causa. Tutto ha una causa significa A rinvia a B, B rinvia a C, ecc. A tutto c’è una ragione significa che bisogna rendere ragione della causalità stessa, a ben vedere tutto ha una ragione significa che il rapporto che A intrattiene con B deve essere in un modo o in un altro compreso nella nozione di A. Allo stesso modo come il rapporto che B intrattiene con C deve essere in un modo o in un altro compreso nella nozione di B. Quindi il principio di ragione sufficiente è un superamento del principio di causalità. È in questo senso che il principio di causalità enuncia soltanto la causa necessaria ma non la ragione sufficiente. Le cause sono soltanto delle necessità non autosufficienti e che suppongono delle ragioni sufficienti.
Posso quindi enunciare il principio di ragione sufficiente nella forma seguente: per ogni cosa c’è un concetto che rende conto sia della cosa che dei suoi rapporti con le altre cose, comprese le sue cause e i suoi effetti.

Per ogni cosa c’è un concetto, non è per niente una cosa ovvia. Molte persone penseranno che è proprio dell’esistenza non avere un concetto. Per ogni cosa c’è un concetto, quale sarà la reciproca? Capite che reciproca non ha affatto lo stesso senso. Aristotele ha fatto un trattato di logica antica riguardante unicamente la tavola degli opposti. Che cos’è il contraddittorio, che cos’è il contrario, che cos’è il subalterno, ecc. Non potete dire contraddittorio quando invece è contrario, non potete dire le cose a caso. Qui, impiego la parola reciproco senza precisare. Quando dico che per ogni cosa c’è un concetto (ridiciamolo che non è per niente una cosa sicura), supponete di accordami quest’idea. A quel punto non posso più sfuggire alla reciproca. Che cos’è la reciproca?

Per una teoria del concetto, dovremmo partire dal canto degli uccelli. La grande differenza fra i gridi e i canti – i gridi d’allarme, i gridi di fame, e poi i canti degli uccelli. E si può spiegare acusticamente quale sia la differenza fra i gridi e i canti. Allo stesso modo, al livello del pensiero, ci sono dei gridi del pensiero e dei canti del pensiero. Come distinguere questi gridi e questi canti? Non possiamo comprendere come si sviluppi una filosofia come canto, o un canto filosofico, se non lo si rapporta a delle coordinate che sono delle specie di gridi, dei gridi che continuano. È una cosa complicata, gridi e canti. Se ripenso alla musica, l’esempio che mi viene in testo ogni volta, sono le due grandi opere di Berg: contengono due grandi gridi di morte. Il grido di Maria e il grido di Lulu. In entrambi i casi abbiamo un grido di morte. Quando si muore non si canta, e tuttavia c’è qualcuno che canta intorno alla morte: colei che piange. Colui che perde l’essere amato canta. O grida, non lo so. In Woyzzeck è un si, è una sirena. Se mettete delle sirene nella musica, ci mettete il grido. È strano. Ora, i due gridi non sono dello stesso tipo, anche acusticamente: c’è un grido che corre verso l’alto e un grido che rasenta la terra. E poi c’è il canto. Il grande amico di Lulu canta la morte. È fantastico. È firmato Berg. Direi che la firma di un filosofo è la stessa cosa. Quando un filosofo è grande, può scrivere tutte le pagine astratte che vuole, ma esse sono atratte soltanto perché non avete saputo estrapolarci il momento nel quale grida. C’è un grido là sotto, un grido che fa paura. Ritorniamo al canto della ragione sufficiente. “Tutto ha una ragione” è un canto. È una melodia, potremmo armonizzare. Un armonia dei concetti. Ma al di sotto ci sarebbero i gridi ritmici: no, no, no. Riprendiamo la mia formulazione cantata del principio di ragione sufficiente. È possibile cantare in modo stonato una filosofia. Le persone che cantano stonatamente una filosofia, la conoscono molto bene, ma essa è completamente morta. Potremmo parlare all’infinito. Il canto della ragione sufficiente: per ogni cosa c’è un concetto. Qual’è la reciproca? In musica, parleremo di serie retrogradabili. Cerchiamo la reciproca di “ogni cosa ha un concetto”. La reciproca è: per ogni concetto, una cosa e una soltanto.

Perché è questa la reciproca di “per ogni cosa un concetto”? Supponete che un concetto abbia due cose che gli corrispondono, c’è una cosa che non ha concetto e a quel punto la ragione sufficiente è fregata. Non posso dire “per ogni cosa un concetto”. Dal momento che ho detto che per ogni cosa c’è un concetto, ho affermato implicitamente che un concetto debba avere necessariamente una cosa e una soltanto, poiché se un concetto ha due cose, c’è qualcosa che non ha concetto e quindi non avrei potuto dire “per ogni cosa un concetto”. Quindi la vera reciproca del principio di ragione sufficiente in Leibniz si enuncerà come segue: per ogni concetto una cosa e una soltanto. È una reciproca, in un senso strano. Ma in questo caso di reciprocità la ragione sufficiente e l’altro principio, cioè per ogni cosa un concetto e per ogni concetto una cosa e una soltanto, non posso dire l’una senza dire l’altra. Fare la reciproca è assolutamente necessario. Se non riconosco la seconda, distruggo la prima.
Quando dicevo che la ragione sufficiente è la reciproca del principio d’identità, non lo dicevo nello stesso senso, perché se voi vi ricordate l’enunciato del principio d’identità, vale a dire ogni proposizione analitica è vera, io faccio la reciproca e ottengo la ragione sufficiente, cioe ogni proposizione vera è analitica: qui non c’è alcuna necessità. Posso dire che ogni proposizione analitica è vera senza dover per forza dire che ogni proposizione vera è analitica. Potrei benissimo dire che ci sono delle proposizioni vere che non sono analitiche. Quindi quando Leibniz ha fatto la reciproca dell’identità, ha forzato la cosa. Ha forzato la cosa perché aveva i mezzi per farlo, cioè ha fatto scaturire un grido. Aveva creato lui stesso un metodo per l’analisi infinita. Altrimenti, non avrebbe potuto.
Tanto è vero che nel caso del passaggio dalla ragione sufficiente al terzo principio che non ho ancora battezzato, fare la reciproca è assolutamente necessario. Bisognava scoprirla. Che cosa vuol dire, “per ogni concetto c’è una cosa e non ce n’è che una”? Qui la cosa diventa strana, cerchiamo di capire. Ciò vuol dire che non ci sono due cose identiche, o che ogni differenza è in ultima istanza concettuale. Se voi avete due cose, bisogna che ci siano due concetti, altrimenti non ci sarebbero due cose. Cosa vuol dire, non ci sono due cose identiche rispetto al concetto? Vuol dire che non ci sono due gocce d’acqua identiche, che non ci sono due foglie d’albero che siano identiche. Leibniz qui è eccezionale, delira con questo principio. Afferma che voi evidentemente credete che due gocce d’acqua siano identiche, ma solo perché non andate abbastanza lontano con l’analisi. Esse non possono avere lo stesso concetto. Questo è molto curioso perché la logica classica ci dice piuttosto che il concetto comprende, per natura, una pluralità infinita di cose. Il concetto di goccia d’acqua si applica a tutte le gocce d’acqua. Certo, dice Leibniz, se voi avete bloccato l’analisi del concetto a un certo momento, a un momento finito; ma se continuate l’analisi ci sarà un momento in cui i concetti non saranno piu li stessi. Per questo la pecora riconosce il suo piccolo agnello. È un esempio di Leibniz: in che modo la pecora riconosce il suo piccolo agnello? Altri pensano che sia tramite concetto. Un piccolo agnello non ha lo stesso concetto del concetto individuale, è così che il concetto va verso l’individuo, un piccolo agnello. Che cos’è questo principio: non c’è che una cosa soltanto; c’è necessariamente una sola cosa per ogni concetto ed una soltanto. Leibniz lo nomina principio degli indiscernibili. Possiamo dunque enunciarlo: c’è una cosa per ogni concetto ed una soltanto oppure ogni differenza è concettuale in ultima istanza.

Non ci sono differenze se non concettuali. In altri termini, se voi assegnate una differenza tra due cose, c’è necessariamente una differenza nel concetto. Leibniz chiama questo principio, principio degli indiscernibili. Se cerco la ratio corrispondente, quale sarebbe? Capite che ciò consiste nel dire che non conosciamo se non tramite concetto. In altri termini, il principio degli indiscernibili mi sembra corrispondere alla terza ratio, la ratio come ratio conoscendi, la ragione come ragione del conoscere. Vediamo le conseguenze di un tale principio. Se questo principio degli indiscernibili fosse vero, cioè se ogni differenza fosse concettuale, ci sarebbero differenze soltanto concettuali. Qui Leibniz ci domanda di accettare qualcosa di enorme. Procediamo con ordine. Quale sarebbe un tipo di differenza non concettuale? Diciamolo subito: la differenza numerica. Io dico per esempio una goccia d’acqua, due gocce d’acqua, tre gocce. Distinguo le gocce per il numero. Soltanto per il numero. Conto gli elementi di un insieme, uno due tre quattro, trascuro la loro individualità, le distinguo con il numero. È questo un primo tipo di distinzione molto classica, la distinzione numerica. Secondo tipo di distinzione: se io vi invito a prendete questa sedia, qualcuno di gentile prende una sedia e io gli dico: non questa, ma quella. In questo caso abbiamo una distinzione spazio-temporale del tipo qui-ora. La cosa che è qui in un determinato momento, e quest’altra cosa che è là in un altro. Infine ci sono delle distinzioni di figura e di movimento: qualcosa che ha tre angoli, o altro. Direi che sono delle distinzioni fatte per estensione e per movimento. Estensione e movimento.

Vedete che il principio degli indiscernibili spinge Leibniz verso qualcosa di strano. Bisogna che dimostri che tutte questi tipi di distinzioni non concettuali – e in effetti sono delle distinzioni non concettuali poiché due cose possono distinguersi a seconda del numero pur avendo lo stesso concetto. Voi ad esempio, pensate al concetto di goccia d’acqua e dite: prima goccia d’acqua, seconda goccia d’acqua. È lo stesso concetto. C’è la prima e c’è la seconda. Una che è qui e una che è là. Una che va veloce l’altra lenta. Abbiamo quasi fatto l’insieme delle distinzioni non concettuali. Arriva Leibniz, e tranquillamente ci dice no, no. Sono pure apparenze, cioè mezzi provvisori per esprimere una differenza di un’altra natura e questa differenza è sempre concettuale. Se ci sono due gocce d’acqua, esse non hanno lo stesso concetto. Che cosa c’è dietro di molto importante? È una cosa molto importante nei problemi d’individuazione. È noto che, per esempio, Cartesio dice che i corpi si distinguono tra di loro in base alla figura e al movimento. Molti pensatori hanno pensato la stessa cosa. Come potete notare, nella formula cartesiana, ciò che si conserva nel movimento (mv – il prodotto della massa a causa del movimento) dipende strettamente da una visione del mondo nella quale i corpi si distinguono per la figura e per il movimento. Che cosa cerca di fare Leibniz nel momento in cui ci dice no: bisogna che a ognuna di queste differenze non concettuali corrispondano delle differenze concettuali; esse la traducono imperfettamente. Ogni differenza non concettuale traduce imperfettamente una differenza concettuale di base. Leibniz si pone così un problema di fisica. Deve trovare una ragione per la quale un corpo sia un numero, che sia qui e ora, che abbia una figura e una velocità. Tradurrà tutto questo nella sua critica verso Cartesio quando dirà che la velocità è un relativo puro. Cartesio si è sbagliato, ha preso qualcosa di puramente relativo per un principio. Bisogna quindi che figura e movimento vadano verso qualcosa di più profondo. Questo significa qualcosa di enorme per la filosofia del XVII secolo.

Cioè che non ci sono sostanze estese o che l’estensione non può essere una sostanza. Che l’estensione, è un puro fenomeno. Che essa rinvia a qualcosa di più profondo. Che non c’è un concetto per l’estensione, che il concetto è di un’altra natura. Bisogna quindi che la figura e il movimento trovino la loro ragione in qualcosa di più profondo – dunque l’estensione non ha alcuna sufficienza. Non è un caso che sia lo stesso che fa una nuova fisica, rigenera completamente la fisica delle forze. Oppone la forza alla figura e all’estensione, essendo la figura e l’estensione soltanto delle manifestazioni della forza. È la forza il vero concetto. Non c’è un concetto per l’estensione perché il vero concetto, è la forza. La forza, è la ragione della figura e del movimento nell’estensione.
Da qui l’importanza di questa operazione che sembrerebbe puramente tecnica nel momento in cui dice che ciò che si conserva nel movimento non è mv, ma mv2. L’elevazione della velocità alla seconda, è la traduzione del concetto di forza. Cioè tutto cambia. È la fisica corrispondente al principio degli indiscernibili. Non ci sono due forze somiglianti o identiche, e sono le forze ad essere i veri concetti che dovranno rendere conto o darci la ragione di tutto ciò che è figura o movimento nell’estensione.
La forza non è un movimento, è la ragione del movimento. Rinnovamento completo della fisica delle forze, e anche della geometria, della cinematica. Tutto cambia con la sola elevazione della velocità al quadrato. mv2 è una formula delle forze, non è una formula del movimento. Capite bene che sta in questo l’essenziale.
Per riassumere il tutto, porrei anche dire, bisogna che la figura e il movimento superino se stessi verso la forza. Bisogna che il numero superi se stesso verso il concetto. Bisogna che lo spazio e il tempo superino se stessi anche loro verso il concetto.

Ma ecco apparire un quarto principio. Ed ecco che Leibniz lo nomina legge della continuità. Perché usa il termine legge? Ecco un problema. Quando Leibniz parla della continuità, che considera come un principio fondamentale, e come una delle sue grandi scoperte, non impiega il termine principio, utilizza quello di legge. È una cosa che dovremo spiegare. Se cerco la formulazione volgare della legge di continuità, sarà molto semplice: la natura non fa salti. Non c’è discontinuità. Ma ci sono due formulazioni sapienti. Se due cause si avvicinano tanto quanto vogliamo, al punto di non differire se non per una differenza decrescente all’infinito, bisogna sia lo stesso per gli effetti. Dico subito cosa aveva in mente perché è talmente in disaccordo con Cartesio... Che cosa ci viene detto nelle leggi della comunicazione del movimento? Ecco due casi: due corpi con la stessa massa e la stessa velocità si incontrano; uno dei due corpi ha una massa più grande o una velocità più grande, quindi prevale sull’altro. Leibniz dice che non è possibile. Perché? Abbiamo due stati della causa. Primo stato della causa: due corpi con la stessa massa e la stessa velocità.

Secondo stato della causa: due corpi con massa diversa. Leibniz dice che possiamo far decrescere la differenza all’infinito, che possiamo far si che questi due stati si avvicinino l’un l’altro nelle cause. Ora, ci viene detto che i due effetti sono completamente differenti: in un caso c’è uno scontro dei due corpi, nell’altro caso il secondo corpo è trascinato dal primo, nella direzione del primo. C’è una discontinuità nell’effetto nel momento in cui si può concepire una continuità nelle cause. È in modo continuo che si può passare da masse differenti a masse uguali. Quindi non è possibile che ci sia discontinuità nei fatti se c’è continuità possibile nella causa. Ciò lo spinge verso uno studio fisico del movimento molto importante che sarà basato sul rimpiazzamento di una fisica delle forze ad una fisica del movimento.
Ma c’è una formulazione erudita dello stesso principio, e vedrete che è la stessa cosa della precedente: dato un caso, il concetto di questo termina nel caso opposto. È l’enunciato puro della continuità. Esempio: dato un caso, il movimento, il concetto del movimento termina nel caso opposto, cioè nel riposo. Il riposo, è il movimento infinitamente piccolo. È ciò che abbiamo visto con il principio infinitesimale della continuità. Dirò allora che l’ultima possibile formulazione erudita della continuità, è: data una singolarità, essa si prolunga su tutta una serie d’ordinari fino alla vicinanza della singolarità seguente. È questa la legge di composizione del continuo. Ciò che abbiamo fatto l’ultima volta.
Ma nel momento in cui credevamo aver finito, ci si presenta un problema molto importante. Qualcosa mi spinge a dire che, tra il principio tre e il principio quattro, c’è una contraddizione, in altre parole tra il principio degli indiscernibili e il principio di continuità, c’è una contraddizione. Prima domanda: in cosa consiste la contraddizione? Seconda domanda: Leibniz non ci ha mai visto la minima contrddizione. Eccoci spinti ad amare e ammirare profondamente un filosofo, ad essere imbarazzati perché alcuni testi ci sembrano contraddittori mentre lui non vede per niente cosa potremmo rimproverargli. Dove sarebbe la contraddizione se ce ne fosse una? Ritorno al principio degli indiscernibili, ogni differenza è concettuale, non ci sono due cose con lo stesso concetto. Dirò al limite che ad ogni cosa corrisponde una differenza determinata, non soltanto determinata ma assegnabile nel concetto. La differenza non soltanto è determinata o determinabile, essa è assegnabile nel concetto stesso. Non ci sono due gocce d’acqua aventi lo stesso concetto, cioè la differenza uno due deve essere compresa nel concetto. Essa deve essere assegnata nel concetto. Cosa ci dice il principio di continuità? Ci dice che le cose procedono per differenze che tendono a svanire. Delle differenze infinitamente piccole, cioè delle differenze non attribuibili.
Diventa terribile. Possiamo dire che ogni cosa procede per differenze non attribuibili? E dire allo stesso tempo che ogni differenza è attribuita e deve essere attribuita nel concetto? Ah! Leibniz si contraddice? Possiamo avanzare un pò cercando la ratio del principio di continuità poiché ho trovato una ratio per ognuno dei primi tre principi. L’identità, è la ragione dell’ essenza o ratio essendi; la ragione sufficiente, è la ragione dell’ esistenza o ratio existendi; gli indiscernibili, sono la ragione del conoscere o ratio conoscendi; il principio di continuità, è la ratio fiendi, cioè la ragione del divenire. Le cose divengono per continuità. Il movimento diventa riposo, il riposo diventa movimento, ecc. Il poligono, moltiplicando i suoi lati, diventa cerchio, ecc. È una ragione del divenire, molto diversa dalle ragioni d’essere o d’esistere. La ratio fiendi aveva bisogno di un principio , del principio di continuità.

Come conciliare la continuità e gli indiscernibili? Oltre ciò bisogna che la maniera con la quale li riconcilieremo renda conto anche di questo: che Leibniz aveva ragione di non vedere fra loro alcuna contraddizione. Qui facciamo l’esperienza di un pensiero. Riprendo la proposizione: ogni nozione individuale esprime il mondo intero. Adamo esprime il mondo, Cesare esprime il mondo, ognuno di voi esprime il mondo. Questa formula, è molto strana. I concetti in filosofia, non sono una parola. Un grande concetto filosofico è un complesso, una proposizione o una funzione proposizionale. Bisognerebbe fare degli esercizi di grammatica filosofica. La grammatica filosofica consisterebbe in questo: dato un concetto, trovate il verbo. Se non lo trovate, vuol dire che non lo avete dinamizzato. Non potete viverlo in quel caso. Il concetto è sempre soggetto di un movimento, di un movimento di pensiero. Una sola cosa conta, il movimento. Dal momento che farete della filosofia, la vostra attenzione sarà rivolta al movimento, solo che è un tipo di movimento particolare, è il movimento del pensiero. Qual’è il verbo? A volte il filosofo lo dice esplicitamente, a volte non lo dice. E Leibniz lo dice? In ogni nozione individuale esprime il mondo, c’è un verbo, esprimere. Ma cosa vuol dire? Vuol dire due cose allo stesso tempo, come se ci fossero due movimenti coesistenti.

Leibniz ci dice allo stesso tempo: Dio non crea Adamo peccatore, crea il mondo dove Adamo ha peccato. Non crea Cesare che attraversa il Rubicone, crea il mondo in cui Cesare attraversa il Rubicone. Quindi, ciò che Dio crea, è il mondo, e non le nozioni idividuali che esprimono il mondo. Seconda proposizione di Leibniz: il mondo esiste solo nelle nozioni individuali che lo esprimono. Se voi privilegiate una nozione individuale rispetto ad un’altra... Se voi accettate questo, scoprirete come due letture o due concezioni complementari e simultanee, due concezioni di cosa? Potete considerare il mondo, ma diciamolo ancora una volta il mondo non esiste in sé, esiste solo nelle nozioni che lo esprimono. Ma potete fare questa astrazione, considerate il mondo. Come lo considerate? Consideratelo come una curva complessa. Una curva complessa ha dei punti singolari e dei punti ordinari. Un punto singolare si prolunga sui punti ordinari fino alla vicinanza di un’altra singolarità, ecc., ecc., facendo così voi componete la curva in modo continuo, con il prolungamento delle singolarità sulle serie di ordinari. Per Laibniz, è questo il mondo. Il mondo continuo, è la distribuzione delle singolarità e delle regolarità, o delle singolarità e degli ordinari che costituiscono precisamente l’insieme scelto da Dio, cioè quello che riunisce il massimo di continuità. Se non uscite da questa visione il mondo è retto dalla legge di continuità poiché la continuità è precisamente questa composizione dei singolari in quanto prolungantesi sulle serie di ordinari che ne dipendono. Avrete il vostro mondo completamente dispiegato sotto forma di una curva sulla quale si distribuiscono singolarità e regolarità. È il primo punto di vista, il quale è interamente sottomesso alla legge di continuità.

Soltanto che, questo mondo non esiste in sé, esiste solo nelle nozioni individuali che lo esprimono. Ciò vuol dire che una nozione individuale, una monade, ognuna ingloba una piccola quantità determinata di singolarità. Essa racchiude un piccolo numero di singolarità. È il piccolo numero di singolarità... Vi ricordate che le nozioni individuali o monadi, sono dei punti di vista sul mondo. Non è il soggetto che spiega il punto di vista, è il punto di vista che spiega il soggetto. Di qui la necessità di domandarsi: che cos’è questo punto di vista?
Un punto di vista è caratterizzato da questo: un piccolo numero di singolarità prelevate sulla curva del mondo. È questo che sta alla base di una nozione individuale. Ciò che fa la differenza fra voi e me, è che voi siete, su questa curva fittizia, costruiti attorno di questa e quella singolarità, ed io attorno a tale e tal’altra singolarità. E ciò che voi chiamate l’individualità è un complesso di singolarità in quanto formanti un punto di vista. Ci sono due stati del mondo. Ha uno stato sviluppato.

(Fine banda sonora.)