Sur Leibniz

Corsi Vincennes - St Denis
Cours du 29/04/1980

Oggi ci occuperemo di cose divertenti, ricreative, ma allo stesso tempo molto delicate. Risposta ad una domanda sul calcolo differenziale: mi sembra che non si possa affermare che alla fine del XVII° secolo e nel XVIII° secolo ci siano delle persone per le quali il calcolo differenziale sia un artificio e altre per le quali il calcolo differenziale rappresenti qualcosa di reale. Non possiamo dirlo perché la questione non era posta in questi termini. Leibniz non ha mai smesso di affermare che il calcolo differenziale è un puro artificio, un sistema simbolico. Quindi su questo punto siamo tutti perfettamente d’accordo. Può esserci disaccordo solo quando ci domandiamo che cosa sia un sistema simbolico, ma riguardo all’irriducibilità dei segni differenziali ad ogni realtà matematica, cioè alla realtà geometrica, aritmetica e algebrica, tutti sono d’accordo. Si mette in atto una differenza nel momento in cui affermiamo che alcuni pensano che il calcolo differenziale sia solo una convenzione, e una convenzione molto dubbia, e gli altri che al contrario pensano che il suo carattere artificiale in rapporto alla realtà matematica gli permetta di essere adeguato a certi aspetti della realtà fisica. Leibniz non ha mai pensato che la sua analisi infinitesimale, il suo calcolo differenziale, come lui li concepiva, siano sufficienti a esaurire il dominio dell’infinito tale come lui, Leibniz, lo concepiva. Per esempio: il calcolo. C’è quello che Leibniz chiama il calcolo del minimo e del massimo che non è per niente dipendente dal calcolo differenziale. Quindi il calcolo differenziale corrisponde ad un certo ordine d’infinito. Se è vero che un infinito qualitativo non può essere colto dal calcolo differenziale, in compenso, Leibniz è talmente cosciente di questo che instaura altri modi di calcolo relativo ad altri ordini d’infinito. Ciò che ha liquidato questa direzione dell’infinito qualitativo, o anche dell’infinito attuale preso tout court, non deriva da Leibniz. Ciò che ha impedito questa strada, è la rivoluzione kantiana; è la rivoluzione kantiana che ha imposto una certa concezione dell’indefinito e che ha attuato la critica più assoluta dell’infinito attuale. Ciò è dovuto a Kant, non a Leibniz. In geometria, dai greci fino al XVII secolo, abbiamo due tipi di problemi. Sono presenti dei problemi che consistono nel trovare delle linee dette rette e delle superfici dette rettilinee. La geometria e l’algebra classica sono sufficienti. Abbiamo dei problemi e otteniamo le equazioni necessarie; è la geometria d’Euclide. Già per i greci, poi anche nel medioevo chiaramente, la geometria non smise di trovarsi davanti ad un tipo di problema d’altra natura: ovvero quando siamo obbligati a cercare e determinare delle curve e delle superfici curvilinee. In questo caso tutti i geometri sono d’accordo nel dire che i metodi classici della geometria e dell’algebra non bastano più.
I greci ebbero gia modo di inventare un metodo speciale che verrà chiamato di esaustione, esso permetteva di determinare le curve e le superfici curvilinee in quanto dava delle equazioni di gradi variabili, al limite infiniti, un’infinita di gradi diversi nell’equazione. Sono questi problemi che renderanno necessaria e che ispireranno la scoperta del calcolo differenziale, e la maniera in cui il calcolo differenziale riprenderà il discorso cominciato dal metodo d’esaustione. Se non colleghiamo un simbolismo matematico a una teoria, se non lo colleghiamo al problema per il quale è stato fatto, non ci capiremmo più niente. Il calcolo differenziale ha senso soltanto se voi vi trovate di fronte ad un'equazione i cui termini hanno potenze diverse. Senza questa condizione non avrebbe senso parlare di calcolo differenziale. E’ giusto considerare la teoria che corrisponde ad un simbolismo, ma dobbiamo anche considerare interamente la pratica. A mio avviso, inoltre, non possiamo capire niente dell’analisi infinitesimale senza renderci conto che tutte le equazioni fisiche sono per natura delle equazioni differenziali. Un fenomeno fisico non può essere studiato – e Leibniz lo dirà molto bene: Cartesio disponeva soltanto della geometria, dell’algebra e di ciò che lui stesso aveva inventato e chiamato geometria analitica, ma anche lontano che possa essere andato, questa invenzione gli diede soltanto i modi per cogliere le figure e i movimenti sotto la specie rettilinea; essendo però l’insieme dei fenomeni della natura di tipo curvilineo, questo metodo si dimostra insufficiente. Cartesio resta nel campo delle figure e del movimento. Leibniz tradurrà: è la stessa cosa affermare che la natura procede in modo curvilineo o affermare che al di là delle figure e del movimento, c’è qualcosa che è il dominio delle forze. Ed al livello stesso delle leggi del movimento, Leibniz cambierà tutto, grazie precisamente al calcolo differenziale. Dirà che ciò che si conserva non è MV, non è la massa e la velocità, ciò che si conserva è MV2. La sola differenza in questa formula è l’elevazione di V alla seconda potenza, ciò è reso possibile dal calcolo differenziale perché esso permette di fare il paragone delle potenze e dei rejets. Cartesio non aveva i mezzi per dire MV2. MV2, dal punto di vista del linguaggio, della geometria, e dell’aritmetica e dell’algebra è un puro e semplice non-senso. Con il sapere scientifico odierno, possiamo in ogni caso spiegare che ciò che si conserva è MV2 senza fare appello all’analisi infinitesimale. Ciò viene fatto nei manuali del liceo, ma per provarlo, e per far si che la formula abbia un senso, ci vuole tutto l’apparato del calcolo differenziale.

Intervento di Comptesse.

Gilles: il calcolo differenziale e l’assiomatica hanno un punto in comune, ma questo punto in comune è di completa esclusione. Storicamente, lo statuto rigoroso del calcolo differenziale verrà fatto molto tardivamente. Cosa vuol dire? Vuol dire che tutto ciò che è convenzione viene espulso dal calcolo differenziale. Ora, per Leibniz, che cos’è un artificio? Ciò che è artificio è tutto un insieme di cose: l’idea di un divenire, l’idea di un limite del divenire, l’idea di una tendenza ad avvicinarsi al limite, tutto queste sono considerate dai matematici delle nozioni assolutamente metafisiche. L’idea che ci sia un divenire quantitativo, l’idea del limite di questo divenire, l’idea che un’infinità di piccole quantità si avvicinino al limite, sono tutte nozioni considerate assolutamente impure, quindi come realmente non assiomatiche o non assiomatizzabili. Quindi, all’inizio, sia in Leibniz sia in Newton che nei suoi successori, l’idea del calcolo differenziale non è separabile e non è separata da un insieme di nozioni giudicate non rigorose e non scientifiche. Essi stessi lo riconoscevano. Alla fine del XIX° secolo e all’inizio del XX°, poi, il calcolo differenziale o l’analisi infinitesimale riceverà uno statuto rigorosamente scientifico, ma a quale prezzo? Viene espulso ogni riferimento all’idea d’infinito; espulso ogni riferimento all’idea di limite ed all’idea di tendere verso un limite. Chi è stato a farlo? Verrà data un’interpretazione e uno statuto del calcolo molto strano perché smette di operare con quantità ordinarie, e ne verrà data un’interpretazione puramente ordinale. A quel punto, diverrà un modo d’esplorazione del finito, del finito come tale. Fu un grande matematico che fece tutto questo: Weyerstrass (?), ma molto tardivamente. Quindi lui fece un’assiomatica del calcolo, ma a che prezzo? Lo trasformò completamente. Oggi, quando facciamo un calcolo differenziale, non abbiamo nessun riferimento alle nozioni d’infinito, di limite e di tendenza ad avvicinarsi al limite. C’è un’interpretazione statica. Nessun dinamismo nel calcolo differenziale. Abbiamo un’interpretazione statica e ordinale del calcolo. Bisogna leggere il libro di Vuillemin “Philosophie de l’algebre”. Questo fatto è molto importante perché ci fa capire che il calcolo differenziale – si, ma anche prima dell’assiomatizzazione tutti i matematici erano d’accordo nel dire che il calcolo differenziale interpretato come metodo di esplorazione dell’infinito era una convenzione impura, Leibniz era il primo a dirlo, ma dovremo però anche sapere qual è il suo valore simbolico. Le relazioni assiomatiche e i rapporti differenziali, no. C’è un’opposizione. L’infinito ha completamente cambiato di senso, di natura, e successivamente fu completamente escluso. Un rapporto differenziale del tipo DY/DX è tale da poter essere estratto da X e Y. Allo stesso tempo DY non è niente in rapporto a Y, è una quantità infinitamente piccola, DX non è niente in rapporto a X, è una quantità infinitamente piccola rispetto a X. In compenso DY/DX è qualcosa. Ma qualcosa del tutto diverso da Y/X. Per esempio, se Y/X designa una curva, DY/DX designa una tangente. Per adesso non importa quale tangente. Diremo quindi che il rapporto differenziale è tale che non significa niente di concreto in rapporto a ciò da cui deriva, in altre parole in rapporto a X e a Y, ma significa qualcos’altro di concreto, ed è così che assicura il passaggio ai limiti. Assicura qualcos’altro di concreto, cioè una Z. E’ proprio come se io dicessi che il calcolo differenziale è completamente astratto in rapporto ad una determinazione del tipo a/b ma che in compenso determina un c. Tanto è vero che la relazione è completamente assiomatica da tutti i punti di vista, se essa è formale in rapporto ad a e b, essa non determina però un c che invece, lui, sarebbe concreto. Quindi essa non ci assicura un passaggio. Questa sarebbe tutta l’opposizione classica fra genesi e struttura. L’assiomatica è veramente la struttura comune ad una pluralità di domini.
L’ultima volta eravamo rimasti al mio secondo grande titolo il quale verteva su queste nozioni: SOSTANZA, MONDO E COMPOSSIBILITA’. La prima parte cercava di analizzare ciò che Leibniz chiamava l’analisi infinita. La risposta fu questa: l’analisi infinita soddisfa questa condizione: essa appare nella misura in cui la continuità e le piccole differenze o differenze che tendono a svanire si sostituiscono all’identità. E’ quando procediamo per continuità e differenze svanenti che l’analisi diviene propriamente analisi infinita. Poi finivo sul secondo aspetto della questione. Ci sarebbe analisi infinita e materia per l’analisi infinita quando mi trovo davanti ad un dominio che non è più regolato direttamente dall’identico, dall’identità, ma bensì un dominio regolato dalla continuità e dalle differenze svanenti. Demmo una risposta relativamente chiara. Da qui il secondo aspetto del problema: che cos’è la compossibilità? Che cosa vuol dire che due cose sono compossibili oppure non compossibili? Ancora una volta Leibniz ci dice che Adamo non peccatore è possibile di per se stesso ma non è compossibile con il mondo esistente. Quindi mette in gioco una nozione di compossibilità che inventa lui stesso, e capite bene come ciò sia strettamente legato all’idea di analisi infinita. Il problema è che l’incompossibile non è la stessa cosa del contraddittorio. E’ complicato. Adamo non peccatore è incompossibile con il mondo esistente, ci sarebbe voluto un altro mondo. Detto questo, vedo soltanto tre soluzioni possibili per cercar di caratterizzare la nozione d’incompossibilità.
Prima soluzione: diremmo che in un modo o in un altro, l’incompossibilità implica una specie di contraddizione logica. Bisogna che ci sia contraddizione fra Adamo non peccatore e il mondo esistente. Soltanto che, questa contraddizione non potremmo renderla chiara se non procedendo all’infinito; sarebbe una contraddizione infinita. Come c’è una contraddizione finita fra cerchio e quadrato, c’è una contraddizione infinita fra Adamo non peccatore e il mondo. Certi testi di Leibniz lavorano in questo senso. Ma, diciamolo ancora, noi sappiamo di dover fare sempre attenzione ai livelli dei testi di Leibniz. In effetti tutto ciò che abbiamo detto precedentemente implicava che la compossibilità e l’incompossibilità siano veramente una relazione originale irriducibile all’identità e alla contraddizione. Identità contraddittoria. Anzi, abbiamo anche visto che l’analisi infinita, sulla base della nostra prima parte, non è un’analisi che sfocia nell’identico alla fine di una serie infinita di passaggi. Tutti i risultati a cui siamo arrivati l’ultima volta furono tali che, lontani dallo scoprire l’identico alla fine di una serie, al limite di una serie infinita di passaggi, invece di procedere così l’analisi infinita sostituiva il punto di vista della continuità a quello dell’identità. Quindi ci troviamo in un campo diverso da quello dell’identità/contraddizione. Ecco un’altra soluzione che dirò molto brevemente perché certi testi di Leibniz la suggeriscono: è che supera il nostro intelletto perché il nostro intelletto è finito, e la compossibilità sarà quindi una relazione originale, ma non conosceremmo la sua radice. Leibniz ci fa scoprire un nuovo campo, non c’è solo il possibile, il necessario e il reale. Ci sono anche il compossibile e l’incompossibile. Pretendeva di aver scoperto tutta una regione dell’essere. Ecco l’ipotesi che vorrei fare: Leibniz era un uomo indaffarato, scrisse in tutti i sensi, dappertutto, non pubblicò o pubblicò veramente poche cose da vivo. Leibniz ha tutta la materia, tutti gli argomenti per dare una risposta relativamente precisa a questo problema. Ciò risulta chiaro poiché è lui che lo inventa, ed è lui che ha la soluzione. E poi che cosa non ha fatto che raggruppi tutto questo? Credo che ciò che potrà dare una risposta a questo problema, e allo stesso tempo dell’analisi infinita e della compossibilità, è una teoria molto strana che Leibniz fu senza dubbio il primo a introdurre in filosofia, e che potremo chiamare teoria delle singolarità.
In Leibniz, la teoria delle singolarità è frammentaria, è dappertutto. E’ talmente discreto che si rischia di leggere delle pagine di Leibniz senza rendersi conto che ci siamo completamente dentro. La teoria delle singolarità mi sembra avere in Leibniz due poli: dovremmo dire che è una teoria matematico-psicologica. E il lavoro di oggi sarà questo: che cos’è una singolarità a livello matematico, e che cosa Leibniz crea con questo? E’ vero che fece la prima grande teoria delle singolarità in matematica? Seconda domanda: che cos’è la teoria leibniziana delle singolarità psicologiche? Un ultima domanda: in che modo la teoria matematico-psicologica delle singolarità, tale come Leibniz la delinea, ci da una risposta a quest’altra domanda: che cos’è l’incompossibile, e quindi anche alla domanda che cos’è l’analisi infinita? Che cos’è questa nozione matematica di singolarità? Perché salata fuori? In filosofia accade molto spesso: un qualcosa che ha importanza in un certo momento e che viene poi abbandonato. E’ il caso di una teoria alla quale Leibniz lavorò molto ma che non ha avuto un seguito, non ha avuto fortuna, nessun seguito. Mi domando se potrebbe essere interessante per noi di riprenderla. Sono sempre titubante fra due cose, riguardo la filosofia: tra l’idea che essa non necessiti di un sapere speciale, in questo senso chiunque può essere adatto per la filosofia, e che allo stesso tempo non si possa fare della filosofia senza essere sensibile ad una certa terminologia filosofica, voi potrete sempre creare una nuova terminologia ma non potete crearla facendo le cose a caso. Voi dovrete sapere il significato di termini come: categorie, concetto, idea, a priori, a posteriori, esattamente come non potremmo fare della matematica senza sapere cosa siano a, b, xy, variabili, costanti, equazioni; c’è un minimo. Ora, voi dovete fare attenzione a tutto ciò. Singolare esiste da sempre all’interno di un certo vocabolario logico. Singolare e non differenza, e allo stesso tempo in relazione con universale. C’è un’altra coppia di nozioni, particolare, che si dice in riferimento al generale. Quindi il singolare e l’universale sono in rapporto l’uno con l’altro; e il particolare è in rapporto con il generale. Che cos’è un giudizio di singolarità, non è la stessa cosa di un giudizio detto particolare né la stessa cosa di un giudizio detto generale. Dico giusto che, formalmente, singolare veniva pensato, nella logica classica, in riferimento con universale. Ma ciò non basta a definire una nozione: quando i matematici impiegano l’espressione singolarità, con cosa la mettono in rapporto? Dobbiamo farci guidare dalle parole. Esiste certamente un’etimologia filosofica o una filologia filosofica. Singolare in matematica si distingue o si oppone a regolare. Il singolare è ciò che sfugge alla regola. C’è un’altra coppia di nozioni impiegata dai matematici, speciale e ordinario. I matematici ci dicono che ci sono delle singolarità speciali e delle singolarità che non lo sono. Ma noi, per comodità, Leibniz non fa questa distinzione fra singolare speciale e singolare non speciale, Leibniz impiega come termini equivalenti singolare, speciale e notevole. Tanto è vero che quando troverete la parola notevole in Leibniz, direte che necessariamente ci strizza l’occhio, essa non vorrà dire ben conosciuto; egli gonfia la parola con una significazione insolita. Quando parlerà d’una percezione notevole, direte voi, ci sta dicendo qualcosa. Ma perché ci interessa? Ecco che le matematiche rappresentano in rapporto alla logica una svolta. L’uso matematico del concetto di singolarità orienta la singolarità verso un rapporto con l’ordinario o il regolare, e non più con l’universale. Ci conviene distinguere ciò che è singolare da ciò che è ordinario o regolare. Che interesse può avere per noi? Supponete che qualcuno dica: le cose in filosofia vanno male perché la teoria della verità si è sempre sbagliata, si è sempre domandato prima di tutto che cosa fosse vero e cosa falso in un pensiero, ma in un pensiero non sono il vero e il falso che contano, ma il singolare e l’ordinario. Ciò che è singolare, ciò che è speciale, ciò che è ordinario in un pensiero. Ma allora che cosa è ordinario. Penso a Kierkegaard che, molto più tardi, dirà che la filosofia ha sempre ignorato l’importanza della categoria di interessante! Ma non può essere vero che la filosofia l’abbia ignorato, c’è almeno un concetto matematico-filosofico della singolarità che ha forse qualcosa di interessante da dirci sul concetto di interessante. Questa bella idea della matematica è che la singolarità non sia più pensata in rapporto all’universale, ma che lo sia in rapporto all’ ordinario o al regolare. Il singolare è ciò che esce dall’ordinario e dal regolare. Affermare questo significa andare già molto lontano, poiché dirlo implica la volontà di voler fare della singolarità un concetto filosofico, trovando le ragioni per farlo in un campo favorevole, cioè la matematica. Ora, in quale caso la matematica ci parla del singolare e dell’ordinario. La risposta è semplice: a proposito di certi punti presi su una curva. Non per forza su una curva, ma particolarmente, o anche molto più generalmente a proposito di una figura, una figura potrà comportare per natura dei punti singolari e dei punti regolari o ordinari. Perché una figura? Perché una figura è qualcosa di determinato! Ma allora il singolare e l’ordinario farebbero parte della determinazione, sarebbe interessante! Vedete che a forza di non dire niente e di battere i piedi, avanziamo comunque di molto. Perché non definire la determinazione in generale, dicendo che è una combinazione di singolare e di ordinario, cosicché ogni determinazione sarebbe così fatta? Potremmo farlo? Prendo una figura molto semplice: un quadrato. La vostra legittima esigenza sarebbe quella di domandarmi quali sono i punti singolari di un quadrato? Di punti singolari nel quadrato ce ne sono quattro, cioè le quattro estremità a, b, c, d. Cerchiamo di definire la singolarità, ma restiamo fermi a degli esempi, facciamo una ricerca bambinesca, parliamo di matematica, ma non ne sappiamo niente. Sappiamo giusto che un quadrato ha quattro lati, e che quindi ci sono quattro punti singolari che sono degli estremi. Sono i punti che segnano, precisamente, che una linea retta è finita e che un’altra d’orientazione diversa, comincia a 90 gradi. Ma cosa saranno i punti ordinari? Saranno l’infinita dei punti che compongono ogni lato del quadrato; ma le quattro estremità saranno dette dei punti singolari.
Domanda: un cubo, quanti punti singolari ha secondo voi? Vedo lo stupore nei vostri volti! In un cubo ci sono otto punti singolari. Ed ecco come, nella geometria la più elementare, potremmo definire i punti singolari: i punti che segnano l’estremità di una linea retta. Ma voi sentite che non siamo che all’inizio. Vorrei opporre quindi i punti singolari e i punti ordinari. Pensando ad una curva o ad una retta, posso veramente dire che i punti singolari sono necessariamente degli estremi? Forse no, ma supponiamo che a prima vista io possa dire qualcosa di questo genere. Per una curva, diventa difficile. Prendiamo l’esempio più semplice: un semicerchio, a voi la scelta di immaginarlo concavo o convesso. Al di sotto faccio un secondo semicerchio, convesso se l’altro è concavo, concavo se l’altro è convesso. I due semicerchi si incontrano in un punto. Disegno poi al di sotto una linea retta che chiamo, conformemente alla natura delle cose, l’ordinata. Disegno l’ordinata. Erigo le perpendicolari all’ordinata. E’ un’esempio di Leibniz, contenuto in un testo dal titolo raffinato: “Tantanem anagocicum”, un piccolo opuscolo di sette pagine scritto in latino, e che vuol dire saggio analogico. AB ha quindi due caratteristiche: è il solo segmento eretto a partire dall’ordinata ad essere unico, tutti gli altri hanno, come dice Leibniz, un doppio, il proprio piccolo gemello. In effetti, xy ha il suo specchio, la sua immagine in x’y’, e voi potrete avvicinarvi ad AB soltanto con delle differenze quasi inesistenti, solo AB e’ unico, senza gemello. Secondo punto: AB può essere detto ugualmente sia un massimo sia un minimo, massimo per rapporto ad uno dei semicerchi, minimo per rapporto all’altro. Avrete già capito. Dirò che AB è una singolarità. Ho introdotto l’esempio della curva più semplice: il semicerchio. Ma è un po' più complicato: ciò che ho dimostrato è che il punto singolare non è necessariamente legato, non è ridotto all’estremo, può trovarsi benissimo nel mezzo, e in questo caso è nel mezzo. Ed è sia un minimo, sia un massimo, sia tutte e due allo stesso tempo. Da qui deriva l’importanza di un calcolo che Leibniz contribuirà a spingere molto lontano, e che chiamerà il calcolo dei massimi e dei minimi, ancora oggi questo calcolo ha una importanza immensa per esempio nei fenomeni di simmetria, nei fenomeni fisici, nei fenomeni ottici. Direi quindi che il mio punto A è un punto singolare; tutti gli altri sono ordinari o regolari. E sono ordinari o regolari in due modi, il fatto è che sono al di sotto del massimo e al di sopra del minimo, e infine hanno sempre un doppio. Si chiarisce un po' questa nozione di ordinario. E un altro caso; una singolarità di un altro caso. Un altro sforzo: prendete una curva complessa. Cos’è che chiameremo le sue singolarità? Le singolarità di una curva complessa sono, detto semplicemente, i punti in vicinanza dei quali, – e voi sapete che la nozione di vicinanza, in matematica, che è molto diversa dalla nozione di contiguità, è una nozione chiave in tutto il campo della topologia, ed è la nozione di singolarità che è capace di farci capire che cos’è la vicinanza – dunque in vicinanza di una singolarità qualcosa cambia: la curva cresce o decresce. Questi punti di crescita o di decrescita, io li chiamerò singolarità. L’ordinario è la serie, ciò che è fra due singolarità; ciò che va dalla vicinanza di una singolarità alla vicinanza di un’altra singolarità, è l’ordinario o il regolare. Cogliamo come dei rapporti, come degli sponsali molto strani: la filosofia detta classica non ha la sua sorte relativamente legata, e inversamente, con la geometria, l’aritmetica e l’algebra classica, cioè le figure rettilinee? Voi mi direte che le figure rettilinee comprendono gia dei punti singolari, d’accordo, ma una volta che ho scoperto e costruito la nozione matematica di singolarità, io posso dire che era già presente nelle figure rettilinee le più semplici? Mai le figure rettilinee le più semplici avrebbero potuto darmi un’occasione reale, una necessità reale di costruire la nozione di singolarità. E’ semplicemente al livello delle curve complesse che ciò s'impone. Una volta trovato al livello delle curve complesse, allora si, posso tornare indietro e dire: ah, era già in un semicerchio, era già in una figura semplice come il quadrato rettilineo, ma prima non avrei potuto.

Intervento: xxx

Gilles brontola: ...pietà...Dio mio...m’ha rotto. Sapete, parlare è una cosa fragile. Pietà...ah pietà...ti lascerò parlare per un’ora quando vuoi, ma non ora...pietà...oh la la...è l’inferno.

Vi leggo un piccolo testo tardivo di Poincaré il quale si occuperà molto della teoria delle singolarità che si svilupperà durante tutto il XVIII e XIX secolo. Ci sono due tipi di lavori di Poincaré, dei lavori di logica e filosofia, e dei lavori di matematica. E’ prima di tutto un matematico. Esiste una tesi di Poicaré sulle equazioni differenziali. Ne leggo una parte riguardante i tipi di punti singolari in una curva rinviante ad una funzione o ad una equazione differenziale. Dice che ci sono quattro tipi di punti singolari: prima di tutto i colli. Sono i punti dai quali passano due curve definite dall’equazione, e due soltanto. In questo caso, l’equazione differenziale è tale che, in vicinanza di questo punto, definirà e farà passare due curve, soltanto due. Ecco un tipo di singolarità. Secondo tipo di singolarità: i nodi dove si incrociano un’infinita di curve definite dall’equazione. Terzo tipo di singolarità: i punti focali intorno ai quali queste curve ruotano avvicinandosi alla maniera di una spirale. Infine il quarto tipo di singolarità: i centri intorno ai quali le curve si presentano sotto forma di cicli chiusi. E Poicare nel seguito della tesi spiega che, secondo lui, uno dei suoi grandi meriti matematici è d’aver messo la teoria delle singolarità in rapporto con la teoria delle funzioni o delle equazioni differenziali. Perché cito questo esempio di Poincaré? Potreste trovare le stesse nozioni in Leibniz. Qui abbiamo un curioso paesaggio che si delinea davanti a noi, con i colli, i punti focali, i centri. E’ veramente come una specie di astrologia di geografia matematica. Vedete che siamo andati dal più semplice al più complesso: al livello di un semplice quadrato, di una figura rettilinea, le singolarità erano degli estremi; al livello di una curva semplice, sono presenti delle singolarità ancora molto facili da determinare, per le quali il principio di determinazione era facile, la singolarità era il caso unico che non aveva dei doppi, oppure era il caso in cui massimo e minimo s’identificavano. Ma troverete delle singolarità più complesse quando passerete a delle curve più complesse. Quindi il campo delle singolarità è, a ben vedere, come infinito. Quale sarà la formula? Fino a quando voi avete a che fare con dei problemi detti rettilinei, per i quali si tratta di determinare delle rette o delle superfici rettilinee, voi non avete bisogno del calcolo differenziale. Voi avrete bisogno del calcolo differenziale quando vi troverete di fronte al compito di determinare delle curve e delle superfici curvilinee. Cosa vuol dire? In cosa consiste il legame fra la singolarità e il calcolo differenziale? Il fatto è che il punto singolare è il punto in vicinanza del quale il rapporto differenziale dy/dx cambia di segno. Per esempio: vertice, vertice relativo di una curva prima che discenda, per la quale voi direte che il rapporto differenziale cambia di segno. Cambia di segno in questo luogo, in qual misura? Nella misura in cui diviene uguale, in vicinanza di questo punto, a zero o all’infinito. Ritroviamo qui il tema del minimo e del massimo. Tutto questo consiste nel dire: prendete lo spazio di relazione fra singolare e ordinario, tale che voi definirete il singolare in funzione dei problemi curvilinei che sono in rapporto con il calcolo differenziale, e in questa tensione od opposizione tra punto singolare e punto ordinario, o punto singolare e punto regolare. E’ questo che la matematica ci fornisce come materiale di base, e ancora una volta è vero che nei casi più semplici il singolare è l’estremità, in altri casi semplice è il massimo o il minimo o anche tutti e due allo stesso tempo; le singolarità sviluppano in questo caso dei rapporti sempre più complessi al livello di curve sempre più complesse . Prendiamo la formula seguente: una singolarità è un punto prelevato o determinato su una curva, è un punto in vicinanza del quale il rapporto differenziale cambia di segno, e il punto singolare ha come proprietà il fatto di prolungarsi su tutta la serie delle ordinarie che ne dipendono fino alla vicinanza delle singolarità seguenti. Diremo quindi che la teoria delle singolarità è inseparabile di una teoria o di un'attività di prolungamento. Potrebbero essere degli elementi per una possibile definizione della continuità? Potrei dire che la continuità o il continuo è il prolungamento di un punto speciale su una serie ordinaria fino alla vicinanza della singolarità seguente. Ne sarei molto contento perché avrei almeno una definizione ipotetica di ciò che è il continuo. E’ molto strano che per ottenere questa definizione del continuo io mi sia servito di ciò che apparentemente introduce una discontinuità, cioè una singolarità dove qualcosa cambia; invece di opporsi, è proprio essa che mi permette questa definizione approssimativa. Leibniz ci dice che tutti noi sappiamo di avere delle percezioni, che per esempio vedo qualcosa di rosso, sento il rumore del mare. Sono delle percezioni; dovremmo addirittura riservargli un nome speciale perché sono coscienti. Una percezione dotata di coscienza, cioè la percezione percepita come tale da un me, la chiameremo appercezione, come apercevoir (percepire). Perché in effetti è la percezione che io appercepisco. Appercezione significa percezione cosciente. Ma allora, dice Leibniz, bisogna per forza che ci siano delle percezioni incoscienti delle quali non ci rendiamo conto. Le chiameremo piccole percezioni, cioè delle percezioni incoscienti. Perché questa necessità? Perché bisogna per forza che ci siano queste piccole percezioni? Leibniz ci da due ragioni: le nostre appercezioni, le nostre percezioni coscienti, sono sempre globali. Ciò di cui ci appercepiamo è sempre un tutto. Ciò che cogliamo per mezzo della percezione cosciente sono delle totalità relative. Ora, bisogna per forza che ci siano delle parti poiché c’è un tutto: questo è un ragionamento che Leibniz fa costantemente, deve esserci anche del semplice se c’è del composto, erige ciò a principio; e non è così ovvio, capite cosa vuol dire? Vuol dire che non ci sono indefiniti, e non è qualcosa di ovvio visto che ciò implica l’infinito attuale. Bisogna che ci sia del semplice poiché c’è del composto. Ci saranno persone che penseranno che tutto è composto all’infinito, saranno i partigiani dell’indefinito, ma Leibniz per altre ragioni pensa che l’infinito sia attuale, quindi bisogna che ci sia del ??????? Poiché noi percepiamo il rumore globale del mare quando siamo seduti sulla spiaggia, dobbiamo per forza avere delle piccole percezioni di ogni onda, come dice grosso modo, anzi, di ogni singola goccia d’acqua. Perché? E’ una specie di esigenza logica, vedremo cosa intende. Lo stesso ragionamento al livello di tutto e di parti, lo fa anche in questo caso, non invocando un principio di totalità ma un principio di causalità: ciò che noi percepiamo è sempre un effetto, ci devono essere allora delle cause. E certo le cause devono esse stesse essere percepite altrimenti l’effetto non sarebbe percepito. In questo caso le goccioline non sono più le parti che compongono l’onda, e le onde le parti che compongono il mare, ma intervengono bensì come cause che producono un effetto. Voi mi direte che non fa una gran differenza, ma voglio farvi notare che in tutti i testi di Leibniz ci sono sempre due argomenti distinti che lui porta perpetuamente a far coesistere: un argomento fondato sulla causalità e un argomento fondato sulle parti. Rapporto causa-effetto e rapporto parte-tutto. Ecco allora che le nostre percezioni coscienti sono immerse in un flusso di piccole percezioni incoscienti. Da una parte, bisogna che sia così logicamente, in virtù dei principi e delle loro esigenze, ma i grandi momenti sono quando l’esperienza conferma l’esigenze dei grandi principi. Quando avviene la bella coincidenza dei principi e dell’esperienza, la filosofia ha i suoi momenti di felicità, anche quando ciò comporta la disgrazia personale del filosofo. E a questo punto il filosofo dice: tutto va bene, tutto è come deve essere. Allora bisognerebbe che l’esperienza mi dimostri che sotto certe condizioni di disorganizzazione della mia coscienza, le piccole percezioni forzino la porta della mia coscienza e m’invadano. Quando la mia coscienza si rilassa, io sono quindi invaso dalle piccole percezioni che non diverranno pertanto delle percezioni coscienti, esse non divengono appercezioni poiché io sono invaso nella mia coscienza solo quando essa è disorganizzata. In quel momento, un fiume di piccole percezioni incoscienti m’invade. No è che queste piccole percezioni cessino di essere incoscienti, sono io che smetto di essere cosciente. Ma io le vivo, esiste un vissuto incosciente. Non le rappresento, non le percepisco, ma ci sono, brulicano. In quali casi. Mi viene dato un gran colpo sulla testa: lo stordimento, è un esempio molto frequente in Leibniz. Sono stordito, mi svengo e un fiume di piccole percezioni incoscienti arriva: un rumore nella mia testa. Rousseau conosceva Leibniz, fece la crudele esperienza di svenire per aver ricevuto un brutto colpo, raccontò poi il suo risveglio e il brulichio di piccole percezioni. E’ un testo molto celebre di Rousseau contenuto in “Sogni di un viandante solitario” (1776-1778), il ritorno alla conoscenza.

Cerchiamo delle esperienze di pensiero: non abbiamo neanche bisogno di fare questa esperienza di pensiero, sappiamo che è così, cerchiamo allora col pensiero il tipo di esperienza che corrisponde al principio: lo svenimento. Leibniz va molto oltre e dice: non sarà questa la morte? Ciò comporterà dei problemi in teologia. La morte sarebbe lo stato di un vivente che non cesserebbe di vivere, la morte sarebbe una catalessi, sembra di parlare di Edgar Poe, siamo ridotti semplicemente alle piccole percezioni. E ancora una volta, non è che esse invadano la mia coscienza, ma è la mia coscienza che si spenge, tutto il suo proprio potere, che si diluisce perché perde coscienza di sé, ma molto stranamente essa diviene coscienza infinitamente piccola delle piccole percezioni incoscienti. Questa sarebbe la morte. In altri termini, la morte non sarebbe nient’altro che un avvolgimento, le percezioni cessano di essere sviluppate in percezioni coscienti, esse vengono avvolte in un infinità di piccole percezioni. Dobbiamo dire ciò soltanto riguardo alla percezione? No. E qui, di nuovo, genialità di Leibniz. C’è una psicologia firmata Leibniz. E’ stata una delle prime teorie dell’inconscio. Ne ho parlato forse abbastanza per far si che voi capiate che è una concezione dell’inconscio che non ha niente a che vedere con quella di Freud. Tutto questo per dire cosa c’è di nuovo in Freud: certo non l’ipotesi di un inconscio che già era stata fatta da numerosi autori, ma bensì la maniera in cui Freud concepisce l’inconscio. Ora, fra i successori di Freud si trovano dei fenomeni molto strani di ritorno a una concezione leibniziani , ma parlerò di questo più tardi. Capite che non può dire ciò solo della percezione, visto che secondo Leibniz, l’anima ha due facoltà fondamentali: l’appercezione cosciente che composta da piccole percezioni incoscienti, e ciò che chiama l’appetizione, l’appetito, il desiderio. E noi saremmo fatti di desiderio e di percezioni. Ora, l’appetizione è l’appetito cosciente. Se le percezioni globali sono fatte di un’infinità di piccole percezioni, le appetizioni o grossi appetiti sono fatti di un’infinità di piccole appetizioni. Come potete vedere le appetizioni sono i vettori corrispondenti alle piccole percezioni, diventa un inconscio molto strano. La goccia del mare alla quale corrisponde la goccia d’acqua, alla quale corrisponde una piccola appetizione presso colui che ha sete. E quando io dico: “Oddio, ho sete, ho sete”, che cosa faccio? Esprimo grossolanamente un risultato globale delle mille e mille piccole percezioni che mi attraversano, e delle mille e mille appetizioni che mi attraversano. Che cosa vuol dire? All’inizio del ventesimo secolo, un grande biologo spagnolo caduto nell’oblio, si chiamava Turro, fece un libro col titolo in francese: “Les origines de la connaissance” (1914-Le origini della conoscenza) ed è un libro straordinario. Turro diceva che quando diciamo “io ho fame” – aveva una formazione puramente biologica -, e ci diciamo che è Leibniz che si è svegliato -, e Turro dice che quando diciamo “io ho fame”, è un vero risultato globale, ciò che egli chiama una sensazione globale. Impiega i suoi concetti: la fame globale e le piccole fami specifiche. Dice che la fame come fenomeno globale è un effetto statistico. Di cosa è composta la fame come sostanza globale? Di mille piccole fami: fame di Sali, fame di sostanze proteiche, fame di grassi, fame di sali minerali, ecc… Quando dico “io ho fame”, io faccio alla lettera, dice Turro, l’integrale o l’integrazione di queste mille piccole fami specifiche. Le piccole differenziali sono le differenziali della percezione cosciente, la percezione cosciente è l’integrazione delle piccole percezioni. Molto bene. Vedete bene che le mille piccole appetizioni sono le mille fami specifiche. E Turro continua perché c’è tuttavia qualcosa di strano a livello animale: come fa l’animale a sapere di cosa ha bisogno? L’animale vede delle qualità sensibili, ci si getta sopra e le mangia, tutti mangiamo delle qualità sensibili. La mucca mangia del verde. Essa non mangia dell’erba, e tuttavia non mangia un verde qualsiasi poiché riconosce il verde dell’erba e non mangia soltanto il verde dell’erba. Il carnivoro non mangia delle proteine, mangia la cosa che ha visto, non vede delle proteine. Il problema dell’istinto, al livello più semplice, è: come si spiega il fatto che le bestie mangiano pressappoco ciò che gli conviene? In effetti, le bestie per il loro pasto mangiano la quantità di grassi, la quantità di sale, la quantità di proteine necessaria all’equilibrio del loro “ambiente” (milieu) interiore. E il loro ambiente interiore che cos’è? L’ambiente interiore è il luogo di tutte le piccole percezioni e le piccole appetizioni.
Che buffa comunicazione fra la coscienza e l’inconscio. Ogni specie mangia pressappoco ciò di cui ha bisogno, salvo gli errori tragici o comici che invocano sempre i nemici dell’istinto: i gatti, per esempio, che mangiano ciò che li avvelenerà, ma è molto raro. E’ questo il problema dell’istinto. Questa psicologia alla Leibniz delinea delle piccole appetizioni che investono delle piccole percezioni; la piccola appetizione fa l’investimento psichico della piccola percezione, e che mondo viene fuori? Non smettiamo di passare da una piccola percezione ad un’altra, anche senza saperlo. La nostra coscienza coglie solo le percezioni globali e i grossi appetiti, “ho fame”, ma quando io dico “ho fame”, sono presenti ogni sorta di passaggi, di metamorfosi; la mia piccola fame di sale che diventa un’altra fame, piccola fame di proteine; piccola fame di proteine che diventa piccola fame di grassi, o tutto ciò che si mescola, sono degli eterogenei. Che ne pensate dei bambini mangiatori di terra? Per quale miracolo mangiano della terra nel momento in cui hanno bisogno della vitamina che questa terra contiene? Dev’essere l’istinto. Sono dei mostri! Ma Dio ha fatto i mostri in armonia.
Allora, qual è lo statuto della vita psichica inconscia? E’ successo a Leibniz di incontrare il pensiero di Locke, e Locke aveva scritto un libro che si chiamava “Saggio sull’intelletto umano”. Leibniz si interessò molto a Locke, soprattutto per il fatto che secondo lui Locke si sbagliava su tutto. Leibniz si divertì a scrivere un grosso libro che intitolò “Nuovo saggio sull’intelletto umano” nel quale, capitolo per capitolo, dimostrava che Locke era uno scemo. Aveva torto, ma fu una grande critica. Alla fine poi non l’ha pubblicato. Ha avuto una reazione morale molto onesta, perché, nel frattempo, Locke era morto. Tutto il suo grosso libro era finito ma lo lasciò da parte, lo inviò a degli amici. Vi racconto questa storia perché Locke, nelle sue pagine migliori, costruisce un concetto per il quale utilizzerò la parola inglese “uneasyness”. Significa, grosso modo, il malessere, lo stato di malessere. E Locke cerca di spiegare che è questo il grande principio della vita psichica. Come vedete è molto interessante perché ci fa sortire dalle banalità sulla ricerca del piacere o della felicità. Locke, in generale, dice che certo possibile che si cerchi il proprio piacere, la propria felicità, forse è possibile, ma non è questa la questione; esiste una specie di inquietudine del vivente. Inquietudine, non angoscia. Lanciò così il concetto psicologico di inquietudine. Non siamo né assetati di piacere, né assetati di felicità, né angosciati, la sua impressione è che siamo prima di tutto inquieti. Non restiamo mai al nostro posto. E Leibniz, in una pagina molto bella, dice che possiamo cercare di tradurre questo concetto, ma che una sua traduzione è alla fine molto difficile; questa parola funziona bene in inglese, un inglese vede subito di cosa si tratta. Noi, diremo qualcuno che è nervoso. Sentite come lo prende in prestito da Locke e come lo trasforma: questo non sentirsi a proprio agio del vivente, che cos’è? Non è affatto il malessere del vivente. E’ che, anche quando è immobile, quando ha la sua percezione cosciente ben inquadrata, brulica comunque: le piccole percezioni e le piccole appetizioni che investono le piccole percezioni fluenti, percezioni fluenti e appetiti fluenti non smettono di muoversi, è questo il punto. Allora, se c’è un Dio, e Leibniz è persuaso Dio c’è, questa uneasyness è molto meno un malessere che una cosa che fa tutt’uno con la tendenza a sviluppare il massimo di percezione, e lo sviluppo del massimo di percezione definirà una specie di continuità psichica. Ritroviamo il tema della continuità, cioè un progresso indefinito della coscienza.
In cosa troviamo il malessere? Il fatto è che si possono fare sempre dei brutti incontri. E’ come la pietra quando tende a cadere: essa tende a cadere seguendo una traiettoria perpendicolare ad esempio, e poi, essa potrebbe incontrare una roccia che la faccia sbriciolare o scoppiare. E’ veramente un incidente legato alla legge della più grande pendenza. Ciò non vuol dire che la legge della più grande pendenza sia la migliore. Si capisce facilmente cosa voglia dire. Ecco dunque un inconscio definito dalle piccole percezioni, e le piccole percezioni sono allo stesso tempo delle percezioni infinitamente piccole e le differenziali della percezione cosciente. E i piccoli appetiti sono allo stesso tempo degli appetiti incoscienti e i differenziali dell’appetizione cosciente. Esiste una genesi della vita psichica a partire dalle differenziali della coscienza. In questo modo l’inconscio leibniziano è l’insieme delle differenziali della coscienza. E’ la totalità infinita delle differenziali della coscienza. C’è una genesi della coscienza. L’idea delle differenziali della coscienza è fondamentale. La goccia d’acqua e l’appetito per la goccia d’acqua, le piccole fami, il mondo dello stordimento. Tutto questo concorre a creare uno mondo bizzarro. Apro una parentesi molto breve. Questo inconscio ha una lunga storia nella filosofia. Grosso modo possiamo dire che è la scoperta e la teorizzazione di un inconscio propriamente differenziale. Capite che questo inconscio è strettamente legato all’analisi infinitesimale, per questo parlavo di dominio psico-matematico. Come ci sono dei differenziali della curva, ci sono dei differenziali della coscienza. I due domini, il dominio psichico e il dominio matematico simbolizzano. Se cerco la sorgente, è Leibniz che lancia la grande idea, la prima grande teoria di questo inconscio differenziale, che poi non si fermerà qui. C’è una lunga tradizione di questa concezione differenziale dell’inconscio a base di piccole percezioni e piccole appetizioni. Tutto ciò culminerà con un grande autore che è stato stranamente sempre sottovalutato in Francia, un tardo-romantico tedesco che si chiama Fechner. E’ un discepolo di Leibniz che svilupperà la concezione dell’inconscio differenziale. Che cosa ha apportato Freud? Certamente non l’inconscio, che già faceva parte di una forte tradizione teorica. Non che per Freud non ci fossero delle percezioni incoscienti, ci sono secondo lui anche dei desideri incoscienti. Vi ricordate che in Freud c’è l’idea che la rappresentazione può essere incosciente, e che in un altro senso anche l’affetto può esserlo. Ciò corrisponde a percezione e appetizione. Ma la novità di Freud è che concepisce l’inconscio – ed ora dirò una cosa veramente elementare per sottolineare una grossa differenza -, egli concepisce l’inconscio in un rapporto di conflitto o d’opposizione con la coscienza, e non in un rapporto differenziale. E’ una cosa completamente diversa concepire un inconscio che esprime dei differenziali della coscienza dal concepire un inconscio che esprime una forza che si oppone alla coscienza e che entra in conflitto con essa. In altri termini, in Leibniz, c’è un rapporto tra la coscienza e l’inconscio, un rapporto a differenze che tendono a svanire, in Freud c’è un rapporto d’opposizione di forze. Potrei dire che l’inconscio attrae delle rappresentazioni, le strappa alla coscienza, sono veramente due forze antagoniste. Potrei dire che filosoficamente Freud dipende da Kant e da Hegel, è evidente. Coloro che avevano orientato esplicitamente l’inconscio nel senso di un conflitto di volontà, e non più di differenziale della percezione, erano della scuola di Schopenhauer che Freud conosce molto bene e che discendevano da Kant. Dobbiamo quindi salvaguardare l’originalità di Freud, salvo il fatto che trovò in effetti una preparazione in certe filosofie dell’inconscio, non certamente facenti parte della corrente leibniziana.
Quindi la nostra percezione cosciente è composta da un’infinità di piccole percezioni. Il nostro appetito cosciente è composto da un’infinità di piccoli appetiti. Leibniz fa in questo modo un’operazione bizzarra, e se non ci trattenessimo, avremmo voglia di protestare subito. Potremmo dirgli, d’accordo, la percezione ha delle cause, per esempio la mia percezione del verde, o la mia percezione di un colore qualunque, essa implica ogni sorta di vibrazione fisica. E queste vibrazioni fisiche non sono esse stesse percepite. Che ci siano un’infinità di cause elementari in una percezione cosciente, con quale diritto lui conclude che queste cause elementari sono esse stesse oggetti di percezioni infinitamente piccole, perché? E cosa vuol dire quando dice che la nostra percezione cosciente è composta da un’infinità di piccole percezioni, esattamente come la percezione del rumore del mare è composto dalla percezione di tutte le gocce d’acqua? Se fate attenzione ai testi, è molto strano perché questi testi dicono cose diverse, delle quali una è detta in modo manifesto per semplificazione e l’altra esprime il vero pensiero di Leibniz. Ci sono due sezioni: le une sono sotto la sezione parte-tutto, così da voler dire che la percezione cosciente è sempre quella di un tutto, questa percezione di un tutto suppone non soltanto delle parti infinitamente piccole, ma anche che queste parti infinitamente piccole siano esse stesse percepite. Quindi la formula: la percezione cosciente è fatta di piccole percezioni, dirò in questo caso che “è fatta di” è uguale a “essere composta di”. Leibniz si esprime molto spesso così. Prendo un testo “Altrimenti non sentiremo per niente il tutto”… se non ci fossero queste piccole percezioni, non avremmo coscienza del tutto. L’organo di senso mette in atto una totalizzazione delle piccole percezioni. L’occhio è ciò che totalizza un’infinità di piccole vibrazioni, e in questo modo compone con le sue piccole vibrazioni una qualità globale che io chiamo il verde, o che chiamo rosso, ecc… il testo è chiaro, si tratta del rapporto tutto-parti. Quando Leibniz vuol fare alla svelta, ha tutto l’interesse per parlare così, ma quando vuole veramente spiegare le cose, parla in modo diverso, dice che la percezione cosciente deriva dalle piccole percezioni. Non è la stessa cosa dire composto da o derivato da. In un caso avete il rapporto parti-tutto, nell’altro caso avete un rapporto di tutt’altra natura. Di che natura? Il rapporto di derivazione, ciò che si chiama una derivata. Anche questo ci riporta al calcolo infinitesimale: la percezione cosciente deriva dall’infinità delle piccole percezioni. A questo punto non posso più dire che l’organo di senso totalizza. Notare che la nozione matematica d’integrale riunisce le due: l’integrale è ciò che deriva da ed anche ciò che opera una integrazione, una specie di totalizzazione, ma una totalizzazione molto speciale, non una totalizzazione per addizioni. Possiamo dire senza rischiare di sbagliarsi, che anche se Leibniz non lo fa notare, sono i secondi testi che hanno l’ultima voce in capitolo. Quando Leibniz ci dice che la percezione cosciente è composta di piccole percezioni, non è il suo vero pensiero. Al contrario, il suo vero pensiero è che la percezione cosciente deriva dalle piccole percezioni. Che cosa vuol dire “deriva da”? prendiamo un altro testo di Leibniz: “La percezione della luce o del colore di cui ci rendiamo conto, i.e. la percezione cosciente – è composta da quantità di piccole percezioni delle quali non ci rendiamo conto, sia da un rumore di cui non ci rendiamo conto, sia da un rumore che avevamo percepito ma che diventa percepibile inavvertitamente – i.e. passa allo stato di percezione cosciente -, a causa di una piccola addizione o di un aumento”. Non passiamo più dalle piccole percezioni alla percezione cosciente per totalizzazione come lo suggeriva il primo testo, passiamo dalle piccole percezioni alla percezione cosciente globale a causa di una piccola addizione. Credevamo aver capito e all’improvviso non capiamo più niente. Una piccola addizione, è l’addizione di una piccola percezione; allora passiamo dalle piccole percezioni alla percezione globale cosciente con una piccola percezione? Viene da pensare che le cose che non vanno più bene. All’improvviso sentiamo il bisogno di basarci sull’altro tipo di testo, almeno era più chiaro. Era più chiaro ma insufficiente. I testi sufficienti sono sufficienti ma non ci si capisce più niente. Situazione deliziosa, salvo nel caso in cui ci imbattiamo in un testo vicino dove Leibniz dice: “bisogna considerare che noi pensiamo a quantità di cose alla volta. Ma noi non facciamo attenzione se non ai pensieri che sono i più distinti…”. Perché ciò che è rimarchevole (remarquable) deve essere composto di parti che non lo sono – qui Leibniz sta mischiando tutto, ma lo fa apposta. Noi che non siamo più innocenti, conosciamo la parola “rimarchevole”, e sappiamo che ogni volta che egli impiega notevole, rimarchevole, distinto, lo fa in un senso molto tecnico, e allo stesso tempo fa confusione, perché l’idea del chiaro e del distinto, a partire da Cartesio, era un’idea che trovavamo un po’ ovunque. Lui, fa trafilare il suo piccolo “distinto”, i pensieri più distinti. Capite, il distinto, il rimarchevole, il singolare. Che cosa vuol dire: passiamo dalle piccole percezioni incoscienti alla percezione cosciente globale a causa di una piccola addizione. Evidentemente non è una qualunque piccola addizione. Non è né un’altra percezione cosciente, né una piccola percezione incosciente in più. Ma cosa vuol dire allora? Vuol dire che le vostre piccole percezioni formano una serie di ordinari, una serie detta regolare: tutte le piccole gocce d’acqua, percezioni elementari, percezioni infinitesimali. Come fate a passare dal rumore del mare alla percezione globale? Prima risposta: per globalizzazione-totalizzazione. Risposta del commentatore: d’accordo, è facile da dire. Non penseremmo mai di fare obiezioni. C’è bisogno di amare abbastanza un autore per sapere che non si sbaglia, che parla così solo per fare alla svelta. Seconda risposta: accade a causa di una piccola addizione. Non può essere l’addizione di una piccola percezione ordinaria o regolare, non può essere neanche l’addizione di una percezione cosciente poiché la coscienza sarebbe allora presupposta. La risposta è che io arrivo in vicinanza di un punto rimarchevole, del quale non opero una totalizzazione, ma una singolarizzazione. E’ quando la serie delle piccole gocce d’acqua percepite si avvicina o entra nelle vicinanze di un punto singolare, di un punto rimarchevole che la percezione diventa cosciente.
E’ una visione del tutto diversa perché a questo punto una gran parte delle obiezioni che si fanno all’idea di un inconscio differenziale svaniscono. Cosa vuol dire? Questo è il senso che sembrano avere i testi più completi di Leibniz. Fin dall’inizio ci facciamo l’idea che dei piccoli elementi, è anche un modo di dire perché ciò che è differenziale non sono gli elementi, non dx in rapporto a x, visto che dx in rapporto a x non vale niente. Ciò che è differenziale non è dy in rapporto a y perché dy per rapporto a y non vale niente. Ciò che è differenziale è dy/dx, è il rapporto. E’ questo che conta nell’infinitamente piccolo. Vi ricordate che a livello dei punti singolari il rapporto differenziale cambia di segno. Leibniz ingravida Freud senza saperlo. A livello della singolarità delle crescite o delle decrescite, il rapporto differenziale cambia di segno, cioè il segno s’inverte. Nel caso della percezione, qual’è il rapporto differenziale? Perché non si tratta di elementi ma di rapporti? Ciò che determina un rapporto è precisamente un rapporto fra gli elementi fisici e il mio corpo. Le vibrazioni e le molecole del mio corpo. Abbiamo quindi dy e dx. E’ il rapporto dell’eccitazione fisica con il mio corpo biologico. E’ il rapporto differenziale della percezione. Voi capite che a questo punto non possiamo più parlare di piccole percezioni. Parleremo del rapporto differenziale fra l’eccitazione fisica e lo stato fisico assimilandolo a dy/dx, poco importa. Ora, la percezione diviene cosciente quando il rapporto differenziale corrisponde a una singolarità, cioè cambia di segno. Per esempio quando l’eccitazione si avvicina sufficientemente. E’ la molecola d’acqua la più vicina del mio corpo che definirà il piccolo aumento per mezzo del quale l’infinito delle piccole percezioni diventa percezione cosciente. Non è per niente un rapporto fra parti, è un rapporto di derivazione. E’ il rapporto differenziale dell’eccitante e del mio corpo biologico che permetterà di definire la vicinanza della singolarità. Capite in che senso Leibniz potrebbe dire che le inversioni di segno, cioè i passaggi dal coscienza all’inconscio e dall’inconscio alla coscienza, le inversioni di segno rinviano ad un inconscio differenziale e non ad un inconscio di opposizione. Quando facevo allusione ai seguaci di Freud, Young per esempio, presenta un lato leibniziano, e reintroduce mandando su tutte le furie Freud, e per questo Freud pensava che Young tradisse assolutamente la psicanalisi, un inconscio di tipo differenziale. E ciò lo deve alla tradizione del romanticismo tedesco che è molto legato lui stesso all’inconscio in Leibniz. Quindi passiamo dalle piccole percezioni alla percezione inconscia per addizione di qualcosa di notevole, cioè quando la serie degli ordinari arriva in vicinanza della singolarità seguente, così come la vita psichica o la curva matematica sarà sottomessa ad una legge che è quella della composizione del continuo. C’è composizione del continuo poiché il continuo è un prodotto: il prodotto dell’atto per il quale una singolarità si prolunga fino alla vicinanza di un’altra singolarità. E tutto questo non vale solo per l’universo del simbolo matematico, ma anche per quello della percezione, della coscienza e dell’inconscio. A questo punto non abbiamo che una sola domanda: cosa sono il compossibile e l’incompossibile? Deriva strettamente da ciò che abbiamo detto. Abbiamo la formula della compossibilità. Riprendo il mio esempio del quadrato con le sue quattro singolarità. Prendete una singolarità, è un punto; fatene il centro di un cerchio. Quale cerchio? Fino alla vicinanza dell’altra singolarità. In altri termini, nel quadrato abcd, voi prendete a come centro di un cerchio che si ferma o del quale la periferia è in vicinanza della singolarità b. Fate la stessa cosa con b: che si ferma in vicinanza della singolarità a e tracciate poi un altro cerchio che si ferma in vicinanza della singolarità c. Questi cerchi si intersecano. Costruirete così, di singolarità in singolarità, ciò che potrete chiamare una continuità. Il caso più semplice di continuità è una linea retta, ma c’è continuità anche con linee non rette. Con il vostro sistema di cerchi che s’intersecano, voi direte che c’è continuità quando i valori delle due serie ordinarie, quelle a-b, e quelle b-, coincidono. Quando c’è coincidenza dei valori delle due serie ordinarie comprese nei due cerchi, voi avete una continuità. Potete quindi costruire una continuità fatta di continuità. Potete costruire una continuità di continuità, esempio: il quadrato. Se le serie degli ordinari derivano da singolarità divergenti, allora avrete una discontinuità.
Voi mi direte che un mondo è costruito per mezzo di una continuità di continuità. E’ la composizione del continuo. Una discontinuità viene definita quando le serie di ordinari o di regolari che derivano da due punti singolari divergono. Terza definizione: il mondo esistente è il migliore? Perché? Perché è il mondo che assicura il massimo di continuità. Quarta definizione: cos’è il compossibile? Un insieme di continuità composte. Ultima definizione: cos’è l’incompossibile? Quando le serie divergono, quando voi non potete più comporre la continuità di questo mondo con la continuità di quest’altro mondo. Divergenza nella serie d’ordinari che dipendono dalle singolarità, a quel punto non può più far parte dello stesso mondo. Abbiamo così una legge di composizione del continuo che è psico-matematica. Perché non lo vediamo? Perché c’è bisogno di tutta questa esplorazione dell’inconscio? Perché, ancora una volta, Dio è perverso. La perversità di Dio sta nell’aver scelto il mondo che implicava il massimo di continuità, calcolo del massimo, ha scelto il mondo e fatto passare all’esistenza il mondo che implicava il massimo di continuità, ha composto il mondo scelto sotto questa forma, solo che ha disperso le continuità poiché si tratta di continuità di continuità. Le ha disperse. Che vuol dire? Si ha l’impressione, dice Leibniz, che ci siano nel nostro mondo delle discontinuità, dei salti, delle rotture. Con un termine molto bello, dice che si ha l’impressione che ci siano delle cadute di musica. Ma non ci sono. Alcuni hanno l’impressione che ci sia un fossato tra l’uomo e l’animale, una rottura. E’ chiaro perché Dio, nella sua malizia estrema, ha concepito il mondo scegliendo sotto la forma del massimo di continuità, quindi esiste ogni sorta di grado intermediario fra l’animale e l’uomo, ma è stato attento a non metterceli sotto gli occhi. Nel bisogno li ha messi in altri pianeti diversi dal nostro mondo. Perché? Perché così era bene fare, bene per noi perché possiamo così credere al nostro dominio sulla natura. Se avessimo tutta le transizioni tra la bestia peggiore e noi, saremmo stati meno vanitosi, ma questa vanità è in fin dei conti buona perché permette all’uomo di acquietarsi sul suo potere nei confronti della natura. Alla fine non è una perversione di Dio, è che dio il fatto è che Dio non ha smesso di rompere le continuità che aveva costruito per introdurre della varietà nel mondo scelto; per nascondere tutto il sistema delle piccole differenze, delle differenze svanenti. Allora ha proposto ai nostri organi di senso e al nostro stupido pensiero, ha presentato un mondo che al contrario è molto spezzettato. Passiamo il nostro tempo a dire che le bestie non hanno un’anima (Cartesio), oppure che esse non parlano. Ma non è così: ci sono tutte le transizioni, tutte le piccole definizioni. Qui troviamo una relazione specifica che è la compossibilità o l’incompossibilità. Vorrei ripetere ancora una volta che la compossibilità è presente quando le serie ordinarie convergono, le serie di punti regolari che derivano da due singolarità e quando i loro valori coincidono, altrimenti c’è discontinuità. In un caso avete la definizione di compossibilità, nell’altro caso, la definizione dell’incompossibilità. Perché Dio ha scelto questo mondo piuttosto che un altro, visto che un altro era possibile? Risposta splendida di Leibniz: perché è il mondo che matematicamente implica il massimo di continuità, ed è unicamente in questo senso che è il migliore dei mondi possibili. Un concetto è sempre qualcosa di molto complesso. La seduta di oggi la mettiamo sotto il segno del concetto di singolarità. Ora, il concetto di singolarità ha come ogni sorta di linguaggio che si riunisce in lui. Un concetto è sempre polivalente (polyvoque), necessariamente. Il concetto di singolarità non potete coglierlo senza un minimo di strumentazione matematica: i punti singolari in opposizione ai punti ordinari o regolari, a livello di esperienze di tipo psicologico: che cos’è lo stordimento, che cos’è un mormorio, che cos’è il rumore, ecc… E a livello filosofico, nel caso di Leibniz, la costruzione di questa relazione di compossibilità. Ciò non