Sur Spinoza

Cours Vincennes
Cours du 24/01/1978
Marco Enrico Giacomelli, marcoenrico_giacomelli@yahoo.it

Oggi facciamo una pausa nel nostro lavoro sulla variazione continua, ritorniamo provvisoriamente ad una lezione di storia della filosofia, su un punto molto preciso. È come un ritaglio, su richiesta di alcuni di voi. Il punto molto preciso concerne ciò: cos'è un'idea e cosa un affetto in Spinoza? Idea e affetto in Spinoza. Nel corso di marzo, su richiesta di alcuni di voi, faremo anche un ritaglio sul problema della sintesi e sul problema del tempo in Kant.
Mi fa un effetto curioso tornare alla storia. Vorrei che prendeste questo pezzo di storia della filosofia press'a poco come una storia tout court. Dopo tutto, un filosofo non è solo qualcuno che inventa delle nozioni, forse inventa anche dei modi di percepire. Procedo quasi per enumerazione. Innanzitutto comincio con delle note terminologiche. Suppongo che la sala sia relativamente eterogenea. Credo che, di tutti i filosofi dei quali la storia della filosofia ci parla, Spinoza sia in una situazione assai eccezionale: la maniera in cui tocca quelli che entrano nei suoi libri non ha equivalenti. Poco importa che l’abbiate letto oppure no, io racconto una storia. Comincio con delle avvertenze terminologiche. Nel libro principale di Spinoza, che si chiama Etica – è scritto in latino –, si trovano due parole: affectio e affectus. Certi traduttori, assai bizzarramente, traducono nel medesimo modo. È una catastrofe. Traducono i due termini, affectio e affectus, con 'affezione'. Dico che è una catastrofe perché, quando un filosofo usa due parole, per principio ha una ragione; [è una catastrofe] soprattutto perché il francese ci offre facilmente le due parole che corrispondono rigorosamente ad affectio e ad affectus, e sono 'affezione' per affectio e 'affetto' per affectus. Certi traduttori traducono affectio con 'affezione' e affectus con 'sentimento': meglio che tradurre con la stessa parola, ma non vedo la necessità di ricorrere alla parola 'sentimento' quando il francese dispone della parola 'affetto'. Dunque, quando uso la parola 'affetto' rinvio all'affectus di Spinoza, quando dirò la parola 'affezione' rinvierò all'affectio.
Primo punto: cos'è un'idea? Cos'è un'idea per comprendere anche le proposizioni più semplici di Spinoza. Su questo punto Spinoza non è originale, va a prendere la parola idea nel senso in cui tutti la hanno sempre presa. Quel che si chiama idea, nel senso in cui tutti l'hanno sempre presa nella storia della filosofia, è un modo di pensiero che rappresenta qualcosa. Un modo di pensiero rappresentativo. Per esempio, l’idea del triangolo è il modo di pensiero che rappresenta il triangolo. Sempre dal punto di vista della terminologia, è molto utile sapere che dal Medio Evo quest'aspetto dell'idea è chiamato «realtà oggettiva». In un testo del XVII secolo o prima, quando incontrate la realtà oggettiva dell'idea vuol sempre dire: l'idea considerata come rappresentazione di qualcosa. L’idea, in quanto rappresenta qualcosa, è detta avere una realtà oggettiva. È il rapporto dell’idea all’oggetto che essa rappresenta. Dunque, si parte da una cosa semplicissima: l’idea è un modo di pensiero definito dal suo carattere rappresentativo. Questo ci da già un primissimo punto di partenza per distinguere idea e affetto (affectus), poiché si chiamerà affetto ogni modo di pensiero che non rappresenta niente. Cosa vuol dire? Prendete a caso ciò che chiunque chiama affetto o sentimento, una speranza per esempio, un'angoscia, un amore: non è rappresentativo. Certo c'è un'idea della cosa amata, una idea di un qualcosa di sperato, ma la speranza in quanto tale o l'amore in quanto tale, non rappresentano niente, rigorosamente niente. Ogni modo di pensiero in quanto non rappresentativo sarà chiamato affetto. Una volizione, una volontà, implica certo, a rigore, che io voglia qualcosa; quel che voglio è oggetto di rappresentazione, è dato in un'idea, ma il fatto di volere non è un'idea, è un affetto perché è un modo di pensiero non rappresentativo. Funziona, non è complicato.
[Spinoza] ne fa derivare immediatamente un primato dell’idea sull’affetto, ed è comune a tutto il XVII secolo, non siamo nemmeno ancora entrati in ciò che è peculiare a Spinoza. C'è un primato dell’idea sull’affetto per una ragione molto semplice: per amare bisogna avere un'idea, per confusa che sia, per indeterminata che sia, di ciò che si ama. Per volere bisogna avere un'idea, per confusa, per indeterminata che sia, di ciò che si vuole. Anche quando diciamo «non so quello che provo», c'è una rappresentazione, per quanto confusa, dell'oggetto. C'è un'idea ma confusa. C'è dunque un primato al contempo cronologico e logico dell'idea sull'affetto, cioè dei modi rappresentativi del pensiero sui modi non rappresentativi. Sarebbe un controsenso assolutamente disastroso se il lettore trasformasse questo primato logico in riduzione. Che l’affetto presupponga l'idea non vuol soprattutto dire che si riduca all'idea o ad una combinazione di idee. Dobbiamo partire da questo, che idea ed affetto sono due specie di modi di pensiero che differiscono per natura, irriducibili l'uno all'altro, ma semplicemente considerati in una relazione tale che l'affetto presuppone un'idea, per quanto confusa essa sia. Questo è il primo punto.
Secondo modo meno superficiale di presentare il rapporto idea-affetto. Ricordate che siamo partiti da un carattere affatto semplice dell'idea. L'idea è un pensiero in quanto è rappresentativa, è un modo di pensiero in quanto è rappresentativo, e in questo senso si parlerà della realtà oggettiva di un'idea. Ma un'idea non ha solo una realtà oggettiva: seguendo anche la terminologia corrente, ha pure una realtà formale. Cos'è la realtà formale dell'idea, una volta detto che la realtà oggettiva è la realtà dell'idea in quanto rappresenta qualcosa? La realtà formale dell'idea, si dirà, è – allora qui diventa molto più complicato e di colpo più interessante – la realtà dell'idea in quanto è essa stessa qualcosa. La realtà oggettiva dell'idea di triangolo è l'idea di triangolo in quanto rappresentante la cosa triangolo, ma l'idea di triangolo è essa stessa qualcosa; d'altronde, in quanto è qualcosa, posso formare un'idea di questa cosa, posso sempre formare un'idea dell'idea. Dirò dunque che non solo ogni idea è idea di qualcosa – dire che ogni idea è idea di qualcosa, è dire che ogni idea ha una realtà oggettiva, che rappresenta qualcosa –, ma dirò anche che l'idea ha una realtà formale poiché è essa stessa qualcosa in quanto idea.
Cosa significa, la realtà formale dell'idea? Non potremo andare molto più in là a questo livello, dovremo metterlo da parte. Bisogna giusto aggiungere che questa realtà formale dell'idea sarà quel che Spinoza chiama assai spesso un certo grado di realtà o di perfezione che l'idea ha in quanto tale. Ogni idea ha, in quanto tale, un certo grado di realtà o di perfezione. Senza dubbio questo grado di realtà o di perfezione è legato all'oggetto che essa rappresenta, ma non vi si confonde: la realtà formale dell'idea, cioè la cosa che è l'idea o il grado di realtà o di perfezione che essa possiede in sé, è il suo carattere intrinseco. La realtà oggettiva dell'idea, cioè il rapporto dell'idea con l'oggetto che rappresenta, è il suo carattere estrinseco; può darsi che il carattere estrinseco e quello intrinseco dell'idea siano fondamentalmente legati, ma non è la stessa cosa. L'idea di Dio e l'idea di rana hanno una realtà oggettiva differente, cioè non rappresentano la stessa cosa, ma nello stesso tempo non hanno la stessa realtà intrinseca, non hanno la stessa realtà formale, vale a dire – lo capite chiaramente – che l'una ha un grado di realtà infinitamente più grande dell'altra. L'idea di Dio ha una realtà formale, un grado di realtà o di perfezione intrinseca infinitamente più grande dell'idea di rana, che è l'idea di una cosa finita.
Se avete capito questo, avete capito quasi tutto. C'è dunque una realtà formale dell'idea, cioè l'idea è qualcosa in sé stessa, questa realtà formale è il suo carattere intrinseco ed è il grado di realtà o di perfezione che racchiude in sé.
Poco fa, quando definivo l'idea tramite la sua realtà oggettiva o il suo carattere rappresentativo, opponevo immediatamente l’idea all'affetto, dicendo che l'affetto è proprio un modo di pensiero che non ha carattere rappresentativo. Ora ho appena definito così l'idea: ogni idea è qualcosa, non solo è idea di qualcosa ma è qualcosa, cioè ha un grado di realtà o di perfezione che le è proprio. A questo secondo livello dobbiamo dunque scoprire una differenza fondamentale tra idea ed affetto. Cosa succede concretamente nella vita? Succedono due cose… E qui è curioso come Spinoza impieghi un metodo geometrico – sapete che l’Etica si presenta sotto forma di proposizioni, dimostrazioni ecc. – e, nello stesso tempo, più è matematico, più è straordinariamente concreto. Tutto ciò che dico e tutti questi commenti sull'idea e sull'affetto rinviano ai libri II e III dell’Etica. In questi libri II e III, [Spinoza] ci fa una specie di ritratto geometrico della nostra vita che, mi pare, è molto, molto convincente. Questo ritratto geometrico consiste nel dirci grosso modo che le nostre idee si succedono costantemente: un'idea scaccia l’altra, un'idea rimpiazza un'altra idea, per esempio all’istante. Una percezione è un certo tipo d’idea, fra poco vedremo perché. Poco fa avevo la testa girata di là, vedevo quell'angolo della sala, mi giro ed è un'altra idea; passeggio per una strada dove conosco delle persone, dico «buongiorno Pierre», poi mi giro, e poi dico «buongiorno Paul». Oppure sono le cose a cambiare: guardo il sole, e il sole poco a poco sparisce e mi trovo nella notte; è dunque una serie di successioni, di coesistenze d'idee, successioni di idee. Ma cosa succede pure? La nostra vita quotidiana non è fatta solo delle idee che si succedono. Spinoza impiega il termine "automazione"; dice che siamo degli automi spirituali, vale a dire che non siamo tanto noi ad avere delle idee, quanto le idee ad affermarsi in noi. Cosa succede anche, a parte questa successione di idee? C'è dell'altro, cioè: in me qualcosa non cessa di variare. C'è un regime della variazione che non è la medesima cosa della successione delle idee stesse. Variazioni, questo deve servirci per quel che vogliamo fare, peccato che lui non usi quella parola… Cos'è questa variazione? Riprendo il mio esempio: incrocio per la strada Pierre che mi è molto antipatico, e poi lo sorpasso, dico «buongiorno Pierre», oppure ne ho paura e poi vedo improvvisamente Paul che mi piace moltissimo, e dico «buongiorno Paul», rassicurato, contento. Bene. Cos'è? Da una parte, successione di due idee, idea di Pierre e idea di Paul; ma c'è dell'altro: si è operata anche in me una variazione – qui le parole di Spinoza sono molto precise, così le cito: «(variazione) della mia forza di esistere» o, altra parola che usa come sinonimo, «vis existendi», la forza d’esistere, o «potentia agendi», la potenza d’agire – e queste variazioni sono perpetue. Dirò che per Spinoza c'è una variazione continua – ed esistere vuol dire questo – della forza di esistere o della potenza d'agire. Ciò come si ricollega al mio stupido esempio, ma che è di Spinoza, «buongiorno Pierre, buongiorno Paul»? Quando vedo Pierre che non mi piace, un'idea, l'idea di Pierre, mi è data; quando vedo Paul che mi piace, l'idea di Paul mi è data. Ciascuna di queste idee ha in rapporto a me un certo grado di realtà o di perfezione. Dirò che l'idea di Paul, in rapporto a me, ha maggior perfezione intrinseca dell'idea di Pierre, poiché l'idea di Paul mi rende felice e l'idea di Pierre mi rattrista. Quando l'idea di Paul succede all'idea di Pierre conviene dire che la mia forza d'esistere o la mia potenza d'agire è aumentata o favorita; quando, al contrario, è l'inverso – quando dopo aver visto qualcuno che mi rendeva gioioso, vedo qualcuno che mi rende triste –, dico che la mia potenza d'agire è inibita o impedita. A questo livello, non si sa nemmeno più se siamo ancora in delle convenzioni terminologiche o se siamo già in qualcosa di molto più concreto. Dirò dunque che man mano che le idee si succedono in noi, avendo ciascuna il proprio grado di perfezione, di realtà o di perfezione intrinseca, colui che ha queste idee, io, non cesso di passare da un grado di perfezione ad un altro, in altri termini c'è una variazione continua sotto forma di aumento-diminuzione-aumento-diminuzione della potenza d'agire o della forza d'esistere di qualcuno a seconda delle idee che ha. Attraverso questo penoso esercizio sentite come affiora la bellezza. Non è male, già, questa rappresentazione dell'esistenza, è veramente l'esistenza nella strada, bisogna immaginare Spinoza che passeggia e vive veramente l'esistenza come questa specie di variazione continua: mano a mano che un'idea ne rimpiazza un'altra, non cesso di passare da un grado di perfezione ad un altro, anche minuscolo, ed è questa specie di linea melodica della variazione continua che definirà l'affetto (affectus) al contempo nella sua correlazione con le idee e nella sua differenza di natura con le idee. Renderci conto di questa differenza di natura e di questa correlazione. Spetta a voi dire se vi conviene oppure no. Tutti abbiamo una definizione più solida dell'affectus; l'affectus, in Spinoza, è la variazione (è lui che parla attraverso la mia bocca; non lo ha detto perché è morto troppo giovane…), è la variazione continua della forza di esistere, in quanto questa variazione è determinata dalle idee che si hanno. Pertanto, in un brano molto importante della fine del libro III – che reca il titolo «Definizione generale dell’affectus» –, Spinoza ci dice: «Soprattutto non credete che l'affectus quale lo concepisco dipenda da una comparazione delle idee». Vuol dire che l'idea ha un bell'essere prima in rapporto all'affetto, l'idea e l'affetto sono due cose che differiscono per natura, l'affetto non si riduce ad una comparazione intellettuale delle idee, l'affetto è costituito dalla transizione vissuta o dal passaggio vissuto da un grado di perfezione ad un altro, in quanto questo passaggio è determinato dalle idee; ma in sé stesso non consiste in un'idea, costituisce l'affetto.
Quando passo dall'idea di Pierre all'idea di Paul, dico che la mia potenza d’agire è aumentata; quando passo dall’idea di Paul all’idea di Pierre, dico che la mia potenza d’agire è diminuita. Ciò equivale a dire che, quando vedo Pierre, sono affetto (affecté) da tristezza; quando vedo Paul sono affetto da gioia. E, su questa linea melodica della variazione continua costituita dall’affetto, Spinoza assegnerà due poli, gioia-tristezza, che saranno per lui le passioni fondamentali, e la tristezza sarà ogni passione, visto che qualunque passione racchiude una diminuzione della mia potenza d’agire, e gioia sarà ogni passione che racchiude un aumento della mia potenza d’agire. Ciò permetterà a Spinoza di affrontare per esempio un problema morale e politico assai fondamentale, che sarà il suo modo di porre il problema politico: com'è che le persone che hanno il potere, in qualunque campo, hanno bisogno di renderci affètti in una maniera triste? Le passioni tristi come necessarie. Ispirare delle passioni tristi è necessario all’esercizio del potere. E Spinoza, nel Trattato teologico-politico, dice che è quello il legame profondo tra il despota e il prete, essi hanno bisogno della tristezza dei loro subordinati (sujets). Qui, capite bene che non considera 'tristezza' in un senso vago, ma nel senso rigoroso che ha saputo dargli: la tristezza è l’affetto in quanto racchiude la diminuzione della potenza d’agire.
Quando, nella mia prima differenza idea-affetto, dicevo che l’idea è il modo di pensiero che rappresenta niente, l’affetto è il modo di pensiero che non rappresenta niente, dicevo in termini tecnici che non era altro che una semplice definizione nominale o, se preferite, esteriore, estrinseca. Con la seconda [differenza], quando dico, da una parte, che l'idea è ciò che ha in sé una realtà intrinseca, e l'affetto è la variazione continua o il passaggio da un grado di realtà ad un altro, o da un grado di perfezione ad un altro, non siamo più nel campo delle definizioni dette nominali, qui abbiamo già una definizione reale, chiamando definizione reale la definizione che mostra, nello stesso tempo in cui definisce la cosa, la possibilità di questa cosa. Quel che è importante è che vediate come, secondo Spinoza, noi siamo fabbricati in quanto automi spirituali. In quanto automi spirituali, c'è tutto il tempo delle idee che si succedono in noi, e seguendo questa successione di idee, la nostra potenza d'agire o la nostra forza d'esistere è aumentata o diminuita in maniera continua, su una linea continua, ed è questo che chiamiamo affectus, è questo che chiamiamo esistere.
L’affectus è dunque la variazione continua della forza d'esistere di qualcuno, in quanto questa variazione è determinata dalle idee che ha. Ma ancora una volta, "determinata" non vuol dire che la variazione si riduce alle idee che ha, poiché l'idea che ho non rende conto della sua conseguenza, cioè il fatto che aumenta la mia potenza d'agire o al contrario la diminuisce in rapporto all'idea che avevo poco fa, e non si tratta di una comparazione, si tratta di una specie di scivolata, di caduta o di rialzo della potenza d'agire.
Nessun problema, nessuna domanda.
Per Spinoza, ci saranno tre specie di idee. Per il momento, non si parla più di affectus, dell’affetto, poiché in effetti l’affetto è determinato dalle idee che si hanno, non si riduce alle idee che si hanno, è determinato dalle idee che si hanno; dunque è essenziale vedere un po' quali sono queste idee che determinano gli affetti, tenendo sempre ben presente che l'affetto non si riduce alle idee che abbiamo, è assolutamente irriducibile. È di un altro ordine.
Le tre specie di idee che Spinoza distingue sono delle idee affezioni, affectio. Vedremo che l’affectio, contrariamente all’affectus, è un certo tipo di idea. Ci sarebbero dunque primariamente delle idee affectio, secondariamente ci capita anche di avere delle idee che Spinoza chiama delle nozioni, e in terzo luogo, per un ristretto numero di noi, poiché è molto difficile, capita d’avere delle idee essenze. Cos'è un'affezione (affectio)? Vedo letteralmente i vostri occhi cascare… Pertanto è strano tutto questo. A prima vista, e attenendosi letteralmente al testo di Spinoza, non ha niente a che vedere con un'idea, ma non niente a che vedere nemmeno con un affetto. Avevamo determinato l’affectus come variazione della potenza d’agire. Un'affezione cos’è? Come prima determinazione, un'affezione è: lo stato di un corpo in quanto subisce l’azione di un altro corpo. Cosa vuol dire? «Sento il sole su di me», oppure, «un raggio di sole si posa su di voi»; è un'affezione del vostro corpo. Cos’è un'affezione del vostro corpo? Non il sole, ma l’azione del sole o l’effetto del sole su di voi. In altri termini, un effetto, o l’azione che un corpo produce su un altro, una volta detto che Spinoza, per ragioni [che derivano] dalla sua fisica, non crede ad un'azione a distanza – l’azione implica sempre un contatto –, ebbene è una miscela di corpi. L’affectio è una miscela di due corpi, un corpo che è detto agire sull’altro, e l’altro raccogliere la traccia del primo. Ogni miscela di corpi sarà chiamato affezione.
Spinoza ne conclude che, essendo l’affectio definita come una miscela di corpi, essa indica la natura del corpo modificato, la natura del corpo affezionato o affetto; l’affezione indica la natura del corpo affetto molto più che la natura del corpo affettante. Egli analizza il suo celebre esempio, «quando guardiamo il sole, immaginiamo che sia distante da noi circa duecento piedi». Questa è un'affectio o, almeno, è la percezione di un’affectio. Chiaramente la mia percezione del sole indica assai più la costituzione del mio corpo, la maniera in cui il mio corpo è costituito, che la maniera in cui il sole è costituito. Io percepisco così il sole in virtù dello stato delle mie percezioni visive. Una mosca percepirà il sole in maniera diversa.
Per salvaguardare il rigore della propria terminologia, Spinoza dirà che un’affectio indica la natura del corpo modificato piuttosto che la natura del corpo modificante, ed essa racchiude la natura del corpo modificante. Io dirò che la prima specie d’idea per Spinoza è ogni modo di pensiero che rappresenta un'affezione del corpo; vale a dire la miscela di un corpo con un altro corpo, oppure la traccia di un altro corpo sul mio corpo sarà chiamata idea d’affezione. In questo senso si potrebbe dire che è un'idea-affezione, il primo tipo di idee. E questo primo tipo di idee corrisponde a ciò che Spinoza chiama il primo genere di conoscenza. Il più basso. Perché è il più basso? Va da sé che sia il più basso poiché queste idee d’affezione non conoscono le cose se non attraverso i loro effetti: sento l’affezione del sole su di me, la traccia del sole su di me. È l’effetto del sole sul mio corpo. Ma delle cause, cioè quel che è il mio corpo, quel che è il corpo del sole, e il rapporto tra questi due corpi in maniera tale che l’uno produca sull’altro questo effetto piuttosto che un’altra cosa, non ne so assolutamente niente. Prendiamo un altro esempio: «il sole fa fondere la cera e indurire l’argilla». È mica poco. Sono delle idee d’affectio. Vedo la cera che cola, e poi giusto accanto vedo l’argilla che si indurisce; è un'affezione della cera e un'affezione dell’argilla, ed io ho un'idea di queste affezioni, percepisco degli effetti. In virtù di quale costituzione corporea l’argilla si indurisce sotto l’azione del sole? Finché resto alla percezione dell’affezione, non ne so nulla. Diremo che le idee-affezioni sono delle rappresentazioni di effetti senza le loro cause, ed è precisamente quel che Spinoza chiama idee inadeguate. Sono idee di miscela separate dalle cause del miscelamento.
E in effetti, che a livello delle idee-affezioni non abbiamo altro se non idee inadeguate e confuse, si capisce benissimo poiché cosa sono, nell’ordine della vita, le idee-affezioni? E senza dubbio, purtroppo, molti di noi, che non fanno abbastanza filosofia, vivono così.
Una volta, una sola volta, Spinoza usa una parola latina, che è molto strana ma molto importante: occursus. È letteralmente l'incontro. Finché ho delle idee-affezioni, vivo secondo la casualità degli incontri: passeggio per la strada, vedo Pierre che non mi piace, è in funzione della costituzione del suo corpo e della sua anima e della costituzione del mio corpo e della mia anima. Qualcuno che non mi piace, corpo e anima, cosa vuol dire? Vorrei farvi capire perché Spinoza ha avuto segnatamente una reputazione molto salda di materialista mentre non cessava di parlare dello spirito e dell’anima, una reputazione di ateo mentre non cessava di parlare di Dio – è molto curioso. Ben si vede perché le persone dicevano che è del puro materialismo. Quando dico: quello là non mi piace, vuol dire, letteralmente, che l'effetto del suo corpo sul mio, l'effetto della sua anima sulla mia, mi rende affètto sgradevolmente, sono delle miscele di corpi o delle miscele di anime. C'è una miscela nociva o una buona miscela, tanto a livello del corpo che dell’anima. È esattamente come: non mi piace il formaggio. Cosa vuol dire? Non mi piace il formaggio. Vuol dire che si miscela col mio corpo in maniera tale da modificarmi in modo spiacevole, non vuol dire nient'altro. Dunque non c'è alcuna ragione per fare delle differenze tra simpatie spirituali e rapporti corporei. In «non mi piace il formaggio», c'è anche una questione d'anima, ma in «Pierre o Paul non mi piace», c'è anche una questione di corpo, tutto ciò non fa proprio nessuna differenza. Semplicemente perché è un'idea confusa, questa idea-affezione, questa miscela. Per forza è confuso e inadeguato poiché non so assolutamente, a questo livello, in virtù di cosa e come il corpo o l'anima di Pierre è costituita, in maniera tale da non convenire con la mia, o in maniera tale che il suo corpo non conviene col mio. Posso giusto dire che non conviene, ma in virtù di quale costituzione dei due corpi, e del corpo affettante e del corpo affetto, e del corpo che agisce e del corpo che subisce, a questo livello qui non ne so nulla. Come dice Spinoza, sono delle conseguenze separate dalle loro premesse o, se preferite, è una conoscenza degli effetti indipendentemente dalla conoscenza delle cause. Sta dunque al caso degli incontri. Cosa può capitare nella casualità degli incontri?
Ma cos’è un corpo? Non svilupperò, sarà l'oggetto di un corso speciale. La teoria di cos’è un corpo, oppure un’anima, è la stessa cosa, si trova nel libro II dell’Etica. Per Spinoza, l’individualità di un corpo si definisce con ciò: è quando un certo rapporto composto (insisto su questo, molto composto, molto complesso) o complesso di movimento e di riposo si mantiene attraverso tutti i cambiamenti che rendono affètte le parti di questo corpo. È la permanenza di un rapporto di movimento e di riposo attraverso tutti i cambiamenti che colpiscono tutte le parti all’infinito del corpo considerato. Capite che un corpo è necessariamente composto all’infinito. Il mio occhio, per esempio, il mio occhio e la relativa costanza del mio occhio, si definisce tramite un certo rapporto di movimento e di riposo attraverso tutte le modificazioni delle diverse parti del mio occhio; ma il mio stesso occhio, che ha già una infinità di parti, è una parte delle parti del mio corpo, l’occhio è a sua volta una parte del viso e il viso, a sua volta, è una parte del mio corpo, ecc. Dunque avete ogni sorta di rapporti che si comporranno gli uni con gli altri per formare un'individualità di questo o quel grado. Ma a ciascuno di questi livelli o gradi, l’individualità sarà definita da un certo rapporto composto di movimento e di riposo.
Cosa può capitare se il mio corpo è fatto così, un certo rapporto di movimento e di riposo che sussume un'infinità di parti? Possono capitare due cose: mangio qualcosa che mi piace, oppure, altro esempio, mangio qualcosa e crollo avvelenato. Letteralmente, in un caso, ho fatto un buon incontro, nell’altro caso, ho fatto un cattivo incontro. Tutto questo fa parte della categoria dell’occursus. Quando faccio un cattivo incontro, ciò significa che il corpo che si miscela al mio distrugge il mio rapporto costituente, o tende a distruggere uno dei miei rapporti subordinati. Per esempio, mangio qualcosa e ho mal di pancia, questo non mi uccide; ha dunque distrutto o inibito, compromesso uno dei miei sotto-rapporti, uno dei miei rapporti componenti. Poi mangio qualcosa e muoio. In questo caso, ha decomposto il mio rapporto composto, ha decomposto il rapporto complesso che definiva la mia individualità. Non ha semplicemente distrutto uno dei miei rapporti subordinati che componeva una delle mie sotto-individualità, ha distrutto il rapporto caratteristico del mio corpo. Al contrario [avviene] quando mangio qualcosa che mi conviene.
«Cos’è il male?», domanda Spinoza. Troviamo ciò nella corrispondenza. Sono delle lettere che mandava ad un giovane olandese che era proprio cattivo. A questo olandese non piaceva Spinoza e lo attaccava costantemente, gli domandava: «Ditemi cos’è per voi il male». Sapete che a quei tempi, le lettere erano molto importanti, e i filosofi mandavano molte lettere. Spinoza, che era estremamente gentile, all'inizio crede che si tratti di un giovane che vuole istruirsi e, poco a poco, capisce che non si tratta affatto di questo, che l'olandese vuole la sua pelle. Di lettera in lettera, la collera di Blyenbergh, che era un buon cristiano, monta, e finisce col dirgli: ma voi siete il diavolo! Spinoza dice che il male, non è difficile, il male è un cattivo incontro.
Incontrare un corpo che si miscela male col vostro. Miscelarsi male, vuol dire miscelarsi in condizioni tali che uno dei vostri rapporti subordinati o che il vostro rapporto costituente è o minacciato, o compromesso, oppure addirittura distrutto.
Sempre più gaio, volendo dimostrare che ha ragione, Spinoza analizza a suo modo l’esempio di Adamo. Nelle condizioni in cui viviamo, pare che siamo assolutamente condannati ad avere una sola specie di idee, le idee-affezioni. Grazie a quale miracolo si potrebbe uscire da queste azioni di corpi che non ci hanno attesi per esistere, come ci si potrebbe elevare ad una conoscenza delle cause? Per il momento si vede bene che dal momento in cui nasciamo siamo condannati alla casualità degli incontri, e non va mica bene. Cosa implica questo? Implica già un'accanita reazione contro Descartes poiché Spinoza affermerà con molta forza, nel libro II, che non possiamo conoscere noi stessi, e non possiamo conoscere i corpi esterni se non attraverso le affezioni che i corpi esterni producono sul nostro. Per quelli che si ricordano un po' Descartes, è la proposizione anti-cartesiana di base poiché esclude ogni apprensione della cosa pensante tramite sé stessa, cioè esclude ogni possibilità del cogito. Non conosco mai altro che le miscele di corpi e non conosco me stesso che per l’azione degli altri corpi su di me, e tramite le miscele.
Non solo è dell’anti-cartesianesimo, ma anche dell’anti-cristianesimo. Perché? Perché uno dei punti fondamentali della teologia è la perfezione immediata del primo uomo creato, quel che si chiama, in teologia, la teoria della perfezione adamitica. Adamo, prima di peccare, è creato tanto perfetto quanto può esserlo, e poi c'è la storia del peccato che è esattamente la storia della caduta, ma la caduta presuppone un Adamo perfetto in quanto creatura. Quest'idea pareva molto bizzarra a Spinoza. La sua idea è che non è possibile; supponendo che ci si dia l’idea di un primo uomo, non ce la si può dare che come quella dell’essere più impotente, più imperfetto che ci sia poiché il primo uomo non può esistere che nella casualità degli incontri e delle azioni degli altri corpi su di sé. Dunque, supponendo che Adamo esista, esiste al modo dell’imperfezione e dell’inadeguatezza assoluta, esiste al modo di un piccolo neonato che è in balìa della casualità degli incontri, a meno che non sia in un ambiente protetto, ma ora ho detto troppo. Cosa sarebbe un ambiente protetto?
Il male è un cattivo incontro. Cosa significa? Spinoza, nella sua corrispondenza con l'olandese, gli dice: tu mi porti continuamente l’esempio di Dio che ha interdetto ad Adamo di mangiare il pomo, e citi questo come l’esempio d’una legge morale. La prima interdizione. Spinoza gli dice: ma non è assolutamente questo che capita, e Spinoza riprende tutta la storia di Adamo sotto la forma di un avvelenamento e di un'intossicazione. Cos’è successo in realtà? Dio non ha mai interdetto nulla ad Adamo, gli ha accordato una rivelazione. Lo ha prevenuto sull’effetto nocivo che il corpo del pomo avrebbe [avuto] sulla costituzione del suo corpo, [sul corpo di] Adamo. In altri termini, il pomo è un veleno per Adamo. Il corpo del pomo esiste secondo un tale rapporto caratteristico che non può agire sul corpo di Adamo per com’è costituito se non decomponendone il rapporto. E se [Adamo] ha avuto torto non ascoltando Dio, non è per questo che avrebbe disobbedito, è che non ha capito niente. Succede anche tra gli animali, certi hanno un istinto che li svia da ciò che per loro è veleno, ce ne sono altri che, su quest'aspetto, non hanno quell'istinto.
Quando faccio un incontro tale che il rapporto del corpo che mi modifica, che agisce su di me, si combina col mio rapporto, col rapporto caratteristico del mio corpo, cosa succede? Dirò che la mia potenza di agire è aumentata; è almeno aumentata sotto questo profilo. Quando, al contrario, faccio un incontro tale che il rapporto caratteristico del corpo che mi modifica compromette o distrugge uno dei miei rapporti, o il mio rapporto caratteristico, dirò che la mia potenza di agire è diminuita, o addirittura distrutta. Ritroviamo qui due affetti (affectus) fondamentali: la tristezza e la gioia.
Per raggruppare tutto a questo livello, in funzione delle idee d'affezione che ho, ci sono due specie d’idee d’affezione: idea d’un effetto che si concilia o che favorisce il mio rapporto caratteristico. Secondo tipo d’idea d’affezione: l’idea di un effetto che compromette o distrugge il mio rapporto caratteristico. A questi due tipi di idee d’affezione corrisponderanno i due movimenti della variazione nell’affectus, i due poli della variazione: in un caso la mia potenza d’agire è aumentata e provo un affectus di gioia, nell’altro la mia potenza d’agire è diminuita e provo un affectus di tristezza. E tutte le passioni, nei loro dettagli, Spinoza le genererà a partire da questi due affetti fondamentali: la gioia come aumento della potenza d’agire, la tristezza come diminuzione o distruzione della potenza d’agire. Vale a dire che ogni cosa, corpo o anima, si definisce tramite un certo rapporto caratteristico, complesso, ma ogni cosa, corpo o anima, si definisce anche tramite un certo poter essere affètto (pouvoir d'être affecté). Tutto capita come se ciascuno di noi avesse un certo poter essere affètti. Se considerate delle bestie, Spinoza sarà molto forte per dirci che quel che conta negli animali non sono assolutamente i generi e le specie; i generi e le specie sono delle nozioni assolutamente confuse, delle idee astratte. Ciò che conta è: di cosa è capace un corpo? E qui lancia una delle questioni più fondamentali di tutta la sua filosofia (prima che ci fossero stati Hobbes e altri), dicendo che l'unica questione è che non sappiamo nemmeno di cosa un corpo è capace, disquisiamo sull’anima e sullo spirito e non sappiamo ciò che può un corpo. Ora, un corpo deve essere definito dall’insieme dei rapporti che lo compongono, o, che è esattamente lo stesso, dal suo poter essere affètto. E fintanto che non saprete qual è il poter essere affètto di un corpo, finché lo apprenderete così, nella casualità degli incontri, non avrete la vita saggia, non avrete la saggezza.
Sapere di cosa siete capaci. Assolutamente non come questione morale, ma prima di tutto come questione fisica, come questione del corpo e dell’anima. Un corpo ha qualcosa di fondamentalmente nascosto: si potrà parlare della specie umana, del genere umano, questo non ci dirà cos'è in grado di rendere affètto il nostro corpo, cos’è capace di distruggerlo. L'unica questione è questo poter essere affètto. Cosa distingue una rana da una scimmia? Non i caratteri specifici o generici, dice Spinoza, ma il fatto che non sono capaci delle medesime affezioni. Dunque, per ogni animale si dovrebbero fare delle vere e proprie mappe di affetti, gli affetti di cui una bestia è capace. E lo stesso per gli uomini: gli affetti di cui tal uomo è capace. Ci si accorgerà a quel punto che, a seconda delle culture, delle società, gli uomini non sono capaci degli stessi affetti. Si sa che un metodo col quale certi governi hanno liquidato gli Indiani dell’America del Sud, è consistito nel lasciare sui cammini ove passano gli Indiani dei vestiti di influenzati, dei vestiti presi nei dispensari poiché gli Indiani non sopportano l’affetto influenza. Nemmeno [c'è stato] bisogno delle mitragliatrici, cadevano come mosche. Va da sé che noi, nelle condizioni di vita della foresta, rischiamo di non vivere molto a lungo. Dunque, genere umano, specie umana o stessa razza, Spinoza dirà che non ha alcuna importanza fintanto che non avrete fatto la lista degli affetti di cui qualcuno è capace, nel senso più forte della parola capace, comprese le malattie di cui è capace. Evidentemente il cavallo da corsa e il cavallo da lavoro sono della stessa specie, sono due varietà della stessa specie, però gli affetti sono molto diversi, le malattie sono assolutamente diverse, la capacità di essere affètto è completamente diversa e, da questo punto di vista, bisogna dire che un cavallo da lavoro è più vicino ad un bue che ad un cavallo da corsa. Dunque, una carta etologica degli affetti è molto diversa da una determinazione generica e specifica degli animali. Vedete che il poter essere affètto può essere colmato in due modi. Quando sono avvelenato, il mio poter essere affetto è assolutamente colmato, ma in maniera tale che la mia potenza d’agire tende allo zero, è cioè inibita. Inversamente, quando provo gioia, cioè quando incontro un corpo che compone il suo rapporto col mio, il mio poter essere affètto è ugualmente colmato e la mia potenza d’agir aumenta e tende a… cosa?
Nel caso d’un cattivo incontro, tutta la mia forza di esistere (vis existendi) è concentrata, tesa verso il seguente fine: investire la traccia del corpo che mi rende affètto per respingere l’effetto di questo corpo, cosicché la mia potenza d’agire è diminuita in ugual misura.
Sono cose molto concrete. Avete mal di testa e dite: «Non riesco nemmeno più a leggere». Significa che la vostra forza di esistere investe a tal punto la traccia emicrania, implica dei cambiamenti in uno dei vostri rapporti subordinati, investe talmente la traccia della vostra emicrania che la vostra potenza d’agire è diminuita in ugual misura. Al contrario, quando dite: «Come mi sento bene», e siete contenti, siete contenti anche perché dei corpi si sono miscelati con voi in proporzioni e condizioni che sono favorevoli al vostro rapporto; in quel momento, la potenza del corpo che vi rende affètti si combina con la vostra in maniera tale che la vostra potenza d’agire è aumentata. Cosicché nei due casi il vostro poter essere affètto sarà completamente effettuato, ma può essere effettuato in maniera tale che la potenza d’agire diminuisce all’infinito o che la potenza d’agire aumenta all’infinito.
All’infinito? È vero? Evidentemente no, poiché al nostro livello le forze d’esistere, i poter essere affètti e le potenze d’agire sono per forza finiti. Solo Dio ha una potenza assolutamente infinita. Bene, ma in certi limiti non cesserò di passare per queste variazioni della potenza d’agire in funzione delle idee d’affezione che ho, non cesserò di seguire la linea di variazione continua dell’affectus in funzione delle idee-affezione che ho e degli incontri che faccio, in maniera tale che, ad ogni istante, il mio poter essere affètto è completamente effettuato, completamente colmato. Semplicemente colmato al modo della tristezza o al modo della gioia. Beninteso, anche entrambe contemporaneamente poiché, nei sotto-rapporti che ci compongono, una parte di noi può essere composta da tristezza e un'altra parte essere composta da gioia. Ci sono delle tristezze locali e delle gioie locali. Per esempio, Spinoza da come definizione del solletico: una gioia locale, ciò non significa che tutto è gioia nel solletico, può essere una gioia d’una natura tale da implicare un'irritazione coesistente ad un’altra natura, irritazione che è tristezza: il mio poter essere affètto tende ad essere superato. Niente è buono per qualcuno che supera il proprio poter essere affètto. Un poter essere affètto è veramente un'intensità o una soglia d’intensità.
Quel che veramente vuole Spinoza è definire l’essenza di qualcuno in modo intensivo come una quantità intensiva. Fintanto che non conoscete la vostra intensità, rischiate il cattivo incontro e avrete un bel dire: com’è bello, e l’eccesso, e la dismisura… Proprio nessuna dismisura, non c’è che lo scacco, nient’altro che lo scacco. Avviso per le overdosi. E per l'appunto il fenomeno del poter essere affètto che è superato con una distruzione totale.
Sicuramente nella mia generazione, in media, eravamo molto più colti o dotti in filosofia, quando se ne faceva, e di contro avevamo una specie di sconvolgente incultura in altri campi, musica, pittura, cinema. Ho l’impressione che per molti di voi il rapporto è cambiato, cioè non sapete assolutamente niente, niente di filosofia e sapete, o piuttosto avete un maneggio concreto di cose come un colore, sapete cos’è un suono o cos’è un’immagine.
Una filosofia è una specie di sintetizzatore di concetti, creare un concetto non è affatto ideologia. Un concetto è una bestia.
Quel che ho definito finora è unicamente aumento e diminuzione della potenza d’agire, o che la potenza d’agire aumenti o diminuisca, l'affetto corrispondente (affectus) è sempre una passione. Che si tratti di una gioia che aumenta la mia potenza d’agire o di una tristezza che diminuisce la mia potenza d’agire, in entrambi i casi sono delle passioni: passioni gioiose o passioni tristi. Ancora una volta Spinoza denuncia un complotto nell’universo di coloro i quali hanno interesse a renderci affètti con passioni tristi. Il prete ha bisogno della tristezza dei suoi subordinati, ha bisogno che si sentano colpevoli. Non ho ancora definito cos’è la potenza d’agire. Le auto-affezioni o affetti attivi presuppongono che possediamo la nostra potenza d’agire e che, su tale o tal altro punto, siamo usciti dal campo delle passioni per entrare nel campo delle azioni. È ciò che ci resta da vedere.
Come potremmo uscire dalle idee-affezioni, come potremmo uscire dagli affetti passivi che consistono in aumento o diminuzione della nostra potenza d’agire, come potremmo uscire dal mondo delle idee inadeguate una volta detto che la nostra condizione ci pare condannare rigorosamente a questo mondo? Da qui si deve leggere l’Etica come apprestante una specie di colpo di scena. Sta per parlarci di affetti attivi ove non ci sono più passioni, ove la potenza d’agire è conquistata invece di passare attraverso tutte queste variazioni continue. Qui c'è un punto molto preciso. Una differenza fondamentale tra etica e morale. Spinoza non fa della morale per una ragione semplicissima: mai si chiede quel che dobbiamo, si chiede continuamente di cosa siamo capaci, cos’è in nostra potenza; l’etica è un problema di potenza, mai un problema di dovere. In questo senso Spinoza è profondamente immorale. Il problema morale, il bene e il male, [Spinoza] ha una natura felice perché non capisce nemmeno cosa voglia dire. Quel che capisce sono i buoni incontri, i cattivi incontri, gli aumenti e le diminuzioni di potenza. Qui fa un'etica e assolutamente non una morale. Questa è la ragione per cui ha segnato tanto Nietzsche.
Noi siamo completamente rinchiusi in questo mondo delle idee-affezioni e di variazioni affettive continue di gioia e tristezza, quindi a volte la mia potenza d’agire aumenta, d’accordo, a volte diminuisce; ma che aumenti o diminuisca, resto nella passione perché, in entrambi i casi, non la possiedo, sono ancora separato dalla mia potenza d’agire. Allora, quando la mia potenza d’agire aumenta, vuol dire che ne sono relativamente meno separato, e viceversa, ma sono separato formalmente dalla mia potenza d’agire, non la possiedo. In altri termini, non sono causa dei miei affetti, e poiché non sono causa dei miei affetti, essi sono prodotti in me da qualcos'altro: sono dunque passivo, sono nel mondo della passione.
Ma ci sono le idee-nozione e le idee-essenza. Già al livello delle idee-nozione appare una sorta d’uscita in questo mondo. Siamo completamente soffocati, rinchiusi in un mondo d’impotenza assoluta, anche quando la mia potenza d’agire aumenta, è su un segmento di variazione, nulla mi garantisce che, all'angolo della strada, non mi prenda un gran colpo di bastone in testa e la mia potenza d’agire ricada.
Vi ricordate che un'idea-affezione è l’idea di una miscela, cioè l’idea di un effetto di un corpo sul mio. Una idea-nozione non concerne più l’effetto di un altro corpo sul mio, è un'idea che concerne e che ha per oggetto la convenienza o la non-convenienza dei rapporti caratteristici tra i due corpi. Se c'è un'idea siffatta – ancora non si sa se c'è, ma si può sempre definire qualcosa a rischio di concludere che non può esistere –, è quel che si chiamerà una definizione nominale. Dirò che la definizione nominale della nozione è: un'idea che, invece di rappresentare l’effetto di un corpo su un altro, cioè la miscela di due corpi, rappresenta la convenienza o la non-convenienza interna dei rapporti caratteristici dei due corpi.
Esempio: se ne sapessi abbastanza sul rapporto caratteristico del corpo detto arsenico e sul rapporto caratteristico del corpo umano, potrei formare una nozione di ciò in cui questi due rapporti non-convengono al punto che l’arsenico, secondo il suo rapporto caratteristico, distrugge il rapporto caratteristico del mio corpo. Sono avvelenato, muoio.
Vedete che, a differenza dell’idea di affezione, invece di cogliere la miscela estrinseca di un corpo con un altro, o l'effetto di un corpo su un altro, la nozione si è elevata alla comprensione della causa, cioè, se la miscela ha tale o tal altro effetto, è in virtù della natura del rapporto dei due corpi considerati e della maniera in cui il rapporto di uno dei corpi si compone col rapporto dell’altro corpo. C'è sempre composizione di rapporti. Quando sono avvelenato, è perché il corpo arsenico ha indotto le parti del mio corpo ad entrare in un altro rapporto rispetto a quello che mi caratterizza. In quel momento, le parti del mio corpo entrano in un nuovo rapporto indotto dall’arsenico, [rapporto] che si compone perfettamente con l’arsenico; l’arsenico è felice poiché si nutre di me. L’arsenico prova una passione gioiosa perché, come ben dice Spinoza, ogni corpo ha un'anima. Dunque l’arsenico è gioioso, io evidentemente no. Esso ha indotto delle parti del mio corpo ad entrare in un rapporto che si compone col suo, dell'arsenico. Io sono triste, vado verso la morte. Vedete che la nozione, se ci si potesse arrivare, è una cosa formidabile.
Non siamo lontani da una geometria analitica. Una nozione non è assolutamente un astratto, è assai concreto: questo corpo, quel corpo. Se avessi il rapporto caratteristico dell’anima e del corpo di colui del quale dico che non mi piace, in rapporto al mio rapporto caratteristico, capirei tutto, conoscerei tramite le cause invece di non conoscere che degli effetti separati dalle loro cause. A quel punto avrei un'idea adeguata. Allo stesso modo, se capissi il perché qualcuno mi piace. Ho preso come esempio i rapporti alimentari, non cambia nulla per i rapporti d'amore. Assolutamente non è che Spinoza concepisca l’amore come alimentazione, concepirebbe altrettanto bene l’alimentazione come amore. Prendete un ménage alla Strindberg, questa specie di decomposizione dei rapporti [che] poi si ricompongono per ricominciare. Cos’è questa variazione continua dell’affectus, e com'è che certe non-convenienze convengono ad alcuni? Perché alcuni non possono vivere se non sotto la forma della scena di ménage indefinitamente ripetuta? Ne escono come se per loro fosse stato un bagno d’acqua fresca.
Capite la differenza tra un'idea-nozione e un'idea-affezione. Un'idea-nozione è per forza adeguata poiché è una conoscenza per cause. Spinoza qui usa non solo il termine nozione per qualificare questa seconda specie d’idea, ma usa il termine "nozione comune". La parola è molto ambigua: significa comune a tutte le menti? Sì e no, è molto minuzioso in Spinoza. In ogni caso, non confondete mai una nozione comune con un'astrazione. Una nozione comune, lui la definisce sempre così: è l’idea di qualcosa che è comune a tutti i corpi o a più corpi – almeno due – e che è comune al tutto e alla parte. Dunque, ci sono sicuramente delle nozioni comuni che sono comuni a tutte le menti, ma non sono comuni a tutte le menti se non nella misura in cui sono in primo luogo l’idea di qualcosa di comune a tutti i corpi. Dunque non sono affatto delle nozioni astratte. Cos’è comune a tutti i corpi? Per esempio, essere in movimento o in riposo. Il movimento e il riposo saranno oggetti di nozioni dette comuni a tutti i corpi. Dunque ci sono delle nozioni comuni che designano qualcosa di comune a due corpi o a due anime. Per esempio, qualcuno che amo. Ancora una volta le nozioni comuni non sono qualcosa di astratto, niente a che vedere con specie e generi, è veramente l’enunciato di ciò che è comune a più corpi o a tutti i corpi; o, visto che non si dà corpo che non sia plurimo, si può dire che ci sono delle cose comuni o delle nozioni comuni in ogni corpo. Per cui si ricasca sulla questione: come si può uscire da questa situazione che ci condannava alle miscele?
Qui i testi di Spinoza sono assai complicati. Si può concepire questa uscita solo nella maniera seguente: quando sono affètto, nella casualità degli incontri, oppure sono affètto da tristezza, oppure da gioia – grosso modo. Quando sono affètto da tristezza, la mia potenza d’agire diminuisce, vale a dire che sono ancora più separato da questa potenza. Quando sono affètto da gioia, essa aumenta, vale a dire che sono meno separato da questa potenza. Bene. Se vi considerate come resi affètti da tristezza, credo sia tutto fottuto, non c'è via d'uscita per una semplice ragione: nella tristezza che diminuisce la vostra potenza di agire non c'è niente che può indurvi a formare la nozione comune di un qualcosa che sarebbe comune ai corpi che vi rendono affètti di tristezza e al vostro. Per una ragione molto semplice: il corpo che vi rende affètti di tristezza lo fa nella misura in cui vi rende affètti secondo un rapporto che non conviene col vostro. Spinoza vuol dire qualcosa di molto semplice, che la tristezza non rende intelligenti. Con la tristezza sei fottuto. Per questo i poteri hanno bisogno che i subordinati siano tristi. L'angoscia non è mai stata un gioco di cultura dell'intelligenza o della vivacità. Finché avete un affetto triste, è che un corpo agisce sul vostro, un'anima agisce sulla vostra in condizioni tali e secondo un rapporto che non conviene col vostro. Pertanto, nulla nella tristezza può indurvi a formare la nozione comune, cioè l'idea di un qualcosa di comune tra i due corpi e tra le due anime. Colmo di saggezza è ciò che sta dicendo. Per questo pensare alla morte è la cosa più immonda. [Spinoza] si oppone a tutta la tradizione filosofica, che è una meditazione sulla morte. La sua formula è che la filosofia è una meditazione sulla vita e non sulla morte. Evidentemente, poiché la morte è sempre un cattivo incontro. Altro caso. Siete affètti da gioia. La vostra potenza d’agire è aumentata, ciò ancora non vuol dire che la possedete, ma il fatto che siate affètti da gioia significa e indica che il corpo o l’anima che vi rende così affètti lo fa secondo un rapporto che si combina col vostro e che col vostro si compone, e questo va dalla formula dell’amore alla formula alimentare. In un affetto di gioia, dunque, il corpo che vi rende affètti è indicato come componente il suo rapporto col vostro e non come il suo rapporto decomponente il vostro. Pertanto qualcosa vi induce a formare la nozione di ciò che è comune al corpo che vi rende affètti e al vostro, all’anima che vi rende affètti e alla vostra. In questo senso, la gioia rende intelligenti. Qui si sente che è una roba strana poiché, metodo geometrico o meno, tutto gli si accorda, può dimostrarlo. Ma c'è un evidente richiamo ad una specie di esperienza vissuta. C'è un evidente richiamo ad un modo di percepire, e ben più, ad un modo di vivere. Bisogna già avere un odio tale per le passioni tristi, la lista delle passioni tristi in Spinoza è infinita, arriva al punto di dire che ogni idea di ricompensa racchiude una passione triste, ogni idea d’orgoglio, la colpevolezza. È uno dei momenti più meravigliosi dell’Etica. È come se gli affetti di gioia fossero un trampolino, vi fanno passare attraverso qualcosa che mai si sarebbe potuto passare se non ci fossero che tristezze. Ci sollecita a formare l’idea di ciò che è comune al corpo che vi rende affètti e al corpo reso affètto. Può andar male, ma può riuscire e divento intelligente. Qualcuno che diventa bravo in latino e nello stesso tempo si innamora… Nei seminari è successo. In cosa è collegato? Com’è che qualcuno fa dei progressi? Non si fanno mai dei progressi su una linea omogenea, è un cosa qui che ci fa fare dei progressi laggiù, come se una piccola gioia qui avesse fatto scattare un clic. Di nuovo la necessità d'una mappa: cos’è successo là affinché ciò si sblocchi qui? Una piccola gioia ci precipita in un mondo di idee concrete che ha spazzato via gli affetti tristi o che sta lottando, tutto questo fa parte della variazione continua. Ma al contempo, questa gioia ci proietta in qualche modo fuori dalla variazione continua, ci fa acquisire almeno la potenzialità d’una nozione comune. Ciò dobbiamo concepirlo molto concretamente, sono delle robe molto locali. Se riuscite a formare una nozione comune, su quel punto il vostro rapporto con quella persona o con quell'animale, dite: «Alfine ho capito qualcosa, sono meno stupido di ieri». L'«ho capito» che ci si dice, talvolta è il momento in cui avete formato una nozione comune. L’avete formata molto localmente, non vi ha mica dato tutte le nozioni comuni. Spinoza non pensa assolutamente come un razionalista – nei razionalisti c'è il mondo della ragione e ci sono le idee. Se ne avete una, evidentemente le avete tutte: siete ragionevole. Spinoza pensa che essere ragionevole, o essere saggio, sia un problema di divenire, il che cambia singolarmente il contenuto del concetto di ragione. Bisogna saper fare gli incontri che vi convengono. Nessuno potrà mai dire che per lui è buono qualcosa che supera il suo poter essere affètto. Il più bello è vivere sui bordi, al limite del proprio poter essere affètto, a condizione che sia il limite gioioso poiché c'è il limite di gioia e il limite di tristezza; ma tutto quel che eccede il vostro poter essere affètto è brutto. Relativamente brutto – quel che va bene per le mosche non per forza va bene per voi …
Non c’è più nozione astratta, non c’è alcuna formula buona per l’uomo in generale. Quel che conta è qual è il vostro potere. Lawrence diceva una cosa direttamente spinozista: una intensità che supera il vostro poter essere affetto, questa intensità è cattiva. Per forza: un blu troppo intenso per i miei occhi, non mi si farà dire che è bello, sarà forse bello per qualcun’altro. Non c'è il buono per tutti, mi direte… Sì, perché i poter essere affètti si compongono. Supponendo che ci sia un poter essere affètto che definisce il poter essere affètto dell’intero universo, è ben possibile poiché tutti i rapporti si compongono all’infinito, ma non in qualsivoglia ordine. Il mio rapporto non si compone con quello dell’arsenico, ma questo cosa può fare? Evidentemente, a me fa molto, ma in quel momento le parti del mio corpo rientrano in un nuovo rapporto che si compone con quello dell’arsenico. Bisogna sapere in quale ordine i rapporti si compongono. Ora, se si sapesse in quale ordine i rapporti di tutto l’universo si compongono, si potrebbe definire un poter essere affètto dell’intero universo, sarebbe il cosmos, il mondo in quanto corpo o in quanto anima. A quel punto, il mondo intero non è che un solo corpo seguente l’ordine dei rapporti che si compongono. A quel punto, avete un poter essere affètto universale propriamente parlando: Dio, che è l’intero universo in quanto causa, ha per natura un poter essere affètto universale. Inutile dire che sta facendo uno strano uso dell’idea di Dio.
Provate una gioia, sentite che questa gioia vi concerne, ch’essa concerne qualcosa d’importante riguardo ai vostri rapporti principali, ai vostri rapporti caratteristici. Qui, allora bisogna che ve ne serviate come d’un trampolino [per] formarvi l’idea-nozione: in cosa il corpo che mi rende affètto e il mio convengono? In cosa l’anima che mi rende affètto e la mia convengono, dal punto di vista della composizione dei loro rapporti, e non più dal punto di vista della casualità dei loro incontri. Fate l’operazione inversa di quella che si fa generalmente. Generalmente le persone fanno la sommatoria delle loro sventure, è proprio qui che comincia la nevrosi, o la depressione, quando ci si mette a fare dei totali: oh merda, c'è questo, e c'è quello… Spinoza propone l’inverso: invece di fare la sommatoria delle nostre tristezze, prendere un punto di partenza locale su una gioia, a condizione di sentire che ci concerne veramente. Da lì si forma la nozione comune, si tenta di vincere localmente, di estendere questa gioia. È il lavoro di una vita. Si tenta di diminuire la porzione rispettiva delle tristezze in rapporto alla porzione rispettiva di una gioia, e si tenta il colpo formidabile seguente: siamo abbastanza assicurati da nozioni comuni che rinviano a dei rapporti di convenienza tra tale e tal altro corpo e il mio, allora si tenterà di applicare lo stesso metodo alla tristezza, ma non si poteva farlo a partire dalla tristezza, cioè si tenta di formare delle nozioni comuni grazie alle quali si arriverà a comprendere in modo vitale in cosa tale e tal altro corpo non-conviene e non conviene più. Ciò diviene non più una variazione continua, ma una curva a campana.
Partite dalle passioni gioiose, aumento della potenza d’agire; ve ne servite per formare delle nozioni comuni d’un primo tipo, nozione di ciò che c’era di comune tra il corpo che mi rendeva affètto di gioia e il mio, estendete al massimo le vostre nozioni comuni viventi e ridiscendete verso la tristezza, stavolta con delle nozioni comuni che formate per comprendere in cosa tal corpo non-conviene col vostro, tale anima non-conviene con la vostra.
A quel punto potete già dire che siete nell’idea adeguata poiché, in effetti, siete passati alla conoscenza delle cause. Potete già dire che siete nella filosofia. Una sola cosa conta, i modi di vivere. Una sola cosa conta, la meditazione sulla vita, e la filosofia non può che essere una meditazione sulla vita e, lungi dall’essere una meditazione sulla morte, è l’operazione che consiste nel far sì che la morte non renda affètto infine che la proporzione relativamente più piccola di me, cioè viverlo come un cattivo incontro. Semplicemente ben si sa che, man mano che un corpo si affatica, le probabilità di cattivi incontri aumentano. È una nozione comune, una nozione comune di non-convenienza. Fintanto che sono giovane, la morte è sul serio qualcosa che viene dal di fuori, è veramente un accidente estrinseco, salvo il caso di malattia interna. Non c’è nozione comune, d'altro canto è vero che quando un corpo invecchia, la sua potenza d'agire diminuisce: non posso più fare quel che solo ieri potevo ancora fare; questo, questo mi affascina nell'invecchiamento, questa specie di diminuzione della potenza d’agire. Cos’è un clown, vitalmente? È uno che, appunto, non accetta l’invecchiamento, non sa invecchiare abbastanza in fretta. Non bisogna invecchiare troppo in fretta poiché è pure un altro modo di essere clown: fare il vecchio. Più si invecchia e meno si ha voglia di fare dei cattivi incontri, ma quando si è giovani ci si lancia nel rischio del cattivo incontro. È affascinante il tipo che, man mano che la sua potenza d’agire diminuisce in funzione dell'invecchiamento, il suo poter essere affètto varia, lui non si abitua, continua a voler fare il giovane. È molto triste. C'è un passo affascinante in un romanzo di Fitzgerald (Il numero di sci nautico), ci sono dieci pagine di assoluta bellezza sul non saper invecchiare… Sapete, gli spettacoli che sono imbarazzanti per gli stessi spettatori.
Il saper invecchiare è arrivare al momento in cui le nozioni comuni devono farvi comprendere in cosa le cose e gli altri corpi sconvengono col vostro. Allora, per forza, bisognerà trovare una nuova grazia che sarà quella della vostra età, soprattutto non aggrapparsi [alla vita]. È una saggezza. Non è la buona salute che fa dire «viva la vita», non è nemmeno la volontà di aggrapparsi alla vita. Spinoza ha saputo morire ammirevolmente, ma lui sapeva molto bene di cosa era capace, sapeva mandare a monte gli altri filosofi. Leibniz andava a fregargli dei pezzi di manoscritti per dire poi che erano suoi. Ci sono delle storie molto curiose – era un uomo pericoloso, Leibniz.
Finisco dicendo che, a questo secondo livello, abbiamo raggiunto l’idea-nozione in cui i rapporti si compongono, e ancora una volta non è astratto poiché ho tentato di dire che era un’impresa straordinariamente vivente. Si è usciti dalle passioni. Si è acquisito il possesso formale della potenza d’agire. La formazione delle nozioni, le quali non sono delle idee astratte, che sono letteralmente delle regole di vita, mi danno il possesso della potenza d’agire. Le nozioni comuni sono il secondo genere di conoscenza. Per capire il terzo bisogna già capire il secondo. Il terzo genere, solo Spinoza c’è entrato. Al di sopra delle nozioni comuni… Avete notato che se le nozioni comuni non sono astratte, sono collettive, rinviano sempre ad una molteplicità, ma non sono meno individuali. È ciò in cui tale e tal altro corpo convengono, al limite ciò in cui tutti i corpi convengono, ma a quel punto è il mondo intero ad essere un'individualità. Dunque le nozioni comuni sono sempre individuali.
Ancora aldilà delle composizioni di rapporti, delle convenienze interiori che definiscono le nozioni comuni, ci sono le essenze singolari. Quali [sono] le differenze? Bisognerebbe dire al limite che il rapporto e i rapporti che mi caratterizzano esprimono la mia essenza singolare, ma tuttavia non è la stessa cosa. Perché? Perché il rapporto che mi caratterizza – quel che dico qui non è assolutamente nel testo, ma c'è quasi –, le nozioni comuni o i rapporti che mi caratterizzano concernono ancora le parti estensive del mio corpo. Il mio corpo è composto da un'infinità di parti estese all'infinito, e queste parti entrano in tali e tal altri rapporti che corrispondono alla mia essenza. I rapporti che mi caratterizzano corrispondono alla mia essenza ma non si confondono con essa, poiché i rapporti che mi caratterizzano sono ancora delle regole sotto le quali si associano, in movimento o in quiete, le parti estese del mio corpo. Mentre l'essenza singolare è un grado di potenza, vale a dire che sono le mie soglie d'intensità. Tra il più basso e il più alto, tra la mia nascita e la mia morte, sono le mie soglie intensive. Ciò che Spinoza chiama essenza singolare, mi pare sia una quantità intensiva, come se ciascuno di noi fosse definito da una specie di complesso d'intensità che rinvia alla sua essenza, e anche dai rapporti che regolano le parti estese, le parti estensive. Sebbene, quando conosco delle nozioni, cioè dei rapporti di movimento e di quiete che regolano la convenienza o la disconvenienza dei corpi dal punto di vista delle loro parti estese, dal punto di vista della loro estensione, non ho ancora pieno possesso della mia essenza in quanto intensità. E Dio, che cos'è? Allorché Spinoza definisce Dio con la potenza assolutamente infinita, si esprime bene. Tutti i termini che impiega esplicitamente, [per esempio] grado – grado in latino è gradus, e gradus rinvia ad una lunga tradizione nella filosofia del Medioevo. Il gradus è la quantità intensiva, per opposizione o differenza con le parti estensive. Dunque bisognerebbe concepire l'essenza di ciascuno come questa specie d'intensità, o limite d'intensità. Essa è singolare perché, quale che sia la nostra comunità di genere o specie, siamo tutti degli uomini per esempio, nessuno di noi ha le stesse soglie d'intensità. Il terzo genere di conoscenza, o la scoperta dell'idea di essenza, si dà quando, a partire dalle nozioni comuni, con un nuovo colpo di scena, si arriva a passare in questa terza sfera del mondo: il mondo delle essenze. Qui si conoscono nella loro correlazione quel che Spinoza chiama – comunque non si può conoscere l'una senza l'altra –, l'essenza singolare che è la mia, e l'essenza che è quella di Dio, e l'essenza singolare delle cose esteriori. Che questo terzo genere di conoscenza faccia appello, da una parte, a tutta una tradizione della mistica ebraica, e che d'altra parte implichi una specie di esperienza mistica pure atea, propria a Spinoza, credo che il solo modo di comprendere questo terzo genere sia cogliere che, aldilà dell'ordine degli incontri e delle miscele, c'è quest'altro stadio delle nozioni che rinvia ai rapproti caratteristici. Ma aldilà dei rapporti caratteristici, c'è ancora il mondo delle essenze singolari. Allora, quando si formano delle idee che sono come pure intensità, ove la mia intensità va a convenire con l'intensità delle cose esteriori, in quel momento si dà il terzo genere poiché, se è vero che tutti icorpi non convengono gli uni con gli altri, se è vero che, dal punto [di vista] dei rapporti che reggono le parti estese di un corpo o di un'anima, le parti estensive, tutti i corpi non convengono gli uni con gli altri; se arrivate ad un mondo di pure intensità, tutte sono supposte convenire le une con le altre. A questo punto, l'amore di voi stessi è nello stesso tempo, come dice Spinoza, l’amore delle altre cose, è nello stesso tempo l'amore di Dio, è l'amore che Dio porta a sé stesso, ecc. Quel che mi interessa in questa punta mistica è questo mondo delle intensità. Qui siete posseduti (en possession), non solo formalmente, ma in modo compiuto. Qui non si tratta nemmeno più di gioia. Spinoza trova la parola mistica beatit